OSSERVATORIO AMERICANO/ Brennan e l’intelligence sfidano Trump

di DOMENICO MACERI*– “Lo considererei un onore se lei revocasse anche il mio nullaosta per la sicurezza”: così scriveva William H. McRaven sulle pagine del Washington Post esprimendo un notevole disappunto per la revoca del nullaosta di sicurezza a John Brennan. McRaven era stato ammiraglio  della Marina americana e comandante delle forze speciali che eliminarono Osama bin Laden nel 2011. Donald Trump ha voluto punire Brennan per essere stato uno personaggi chiave nello  scatenare l’inchiesta del Russiagate  ma anche per i suoi critici commenti sul suo operato.

Ricordiamo che Brennan, dopo l’incontro fra Trump e Vladimir Putin a Helsinki del 16 luglio, aveva accusato il presidente americano di tradimento per avere preso le difese del leader russo invece di sostenere i gruppi di intelligence americana che hanno determinato la presunta interferenza russa nell’elezione americana del 2016. Il giorno dopo Trump si è reso conto di avere sbagliato e ha spiegato che si era trattato di una svista linguistica.
Poco credibile, ovviamente, perché il 45esimo presidente non ha mai digerito la tesi dell’interferenza russa nella sua elezione vedendo questa eventualità come macchia sulla sua vittoria del 2016 ma anche sulla possibile trasparenza sui suoi rapporti finanziari con oligarchi russi. Punire Brennan togliendogli il nullaosta di sicurezza non avrà un grande impatto sulla vita personale o pubblica dell’ex direttore della Cia, ma riconferma la rottura fra Trump e il mondo dell’intelligence.

I nullaosta sulla sicurezza vengono conservati agli ex membri dell’intelligence per varie ragioni. Non è raro che questi individui vengano richiamati o consultati dai membri di un nuovo governo per assistenza e chiarimenti su temi di vitale importanza. In queste consultazioni gli ex funzionari spesso vengono aggiornati su informazioni confidenziali che richiedono il nullaosta. Privarsi della possibilità di fare uso della loro saggezza, accumulata in anni di servizio, andrebbe s vantaggio del Paese.

In tempi passati queste transizioni avvenivano di routine e gli ex funzionari del mondo dell’intelligence rimanevano in grande misura nell’anonimato. Il caso di Brennan è diverso per il fatto che Trump non ha accettato con fatti e parole le conclusioni del mondo dell’intelligence sull’interferenza russa nelle ultime elezioni presidenziali.
Ciò appare evidente  nei suoi innumerevoli tweet, in cui attacca a destra e a manca non solo l’inchiesta di Robert Mueller, il procuratore speciale sul Russiagate, ma in realtà tutte le agenzie di intelligence.

Questa campagna contro l’intelligence è iniziata con il licenziamento di James Comey, direttore della Fbi dopo il rifiuto di questi di mettere da parte le inchieste su Michael Flynn, il consigliere della sicurezza nazionale, licenziato da Trump dopo poche settimane di lavoro. Dopo avere messo Comey da parte, il 45esimo presidente ha licenziato 25 elementi della Fbi e del dipartimento di giustizia, incluso Andrew McCabe, numero 2 alla Fbi, e Sally Yates, vice procuratore generale.

Trump ha anche dimostrato il suo disappunto su Jeff Sessions, procuratore generale, e Rod Rosenstein, vice procuratore generale, nominati da lui stesso. Nel caso del primo lo ha deriso e offeso pubblicamente e in uno dei tanti tweet ha anche suggerito che Sessions dovrebbe mettere fine all’inchiesta di Russiagate. Il vero responsabile dell’inizio dell’inchiesta sull’interferenza russa sull’elezione americana è però Rosenstein poiché Sessions si era ricusato a causa del suo conflitto per avere partecipato alla campagna elettorale di Trump.

La revoca del nullaosta di Brennan non è dunque una distrazione, come molti analisti hanno suggerito. Si tratta di un altro attacco all’intelligence per cercare in tutti i modi di minare direttamente e indirettamente l’inchiesta di Mueller ma allo stesso tempo cercare di sminuirne le conseguenze, con poco successo, come ci dimostrano alcuni recentissimi eventi.
Don McGahn, l’avvocato della Casa Bianca, sta collaborando con Mueller sul Russiagate da nove mesi e ha parlato con gli investigatori almeno tre volte per un totale di 30 ore.  Paul  Manafort, il manager della campagna politica di Trump per quattro mesi, è appena stato condannato su otto capi di accusa per frode fiscale. Michael Cohen, ex legale di Trump, si è dichiarato colpevole su 8 capi di accusa, incluso uno sulla violazione della legge elettorale per un candidato politico (non specificato ma facile da identificare).  Il pericolo di ulteriori informazioni che questi tre individui potrebbero fornire a Mueller non è da sottovalutare, anche se l’inchiesta include molte altre testimonianze che potrebbero incastrare il presidente.

La revoca del nullaosta a Brennan si riallaccia dunque al Russiagate che preoccupa l’attuale inquilino della Casa Bianca. Ciononostante l’azione contro Brennan va oltre la sua persona minacciando altri personaggi, ma creando allo stesso tempo incertezza per tutti i 4 milioni di funzionari che posseggono il nullaosta e che potrebbero perderlo se il presidente lo decide. Per molti di questi individui si tratta di estrema necessità poiché senza il nullaosta perderebbero il loro posto di lavoro. Inoltre c’è da considerare anche l’effetto negativo per futuri individui che vogliano lavorare nel mondo dell’intelligence.

Questo clima di incertezza dovuto all’attacco a Brennan ha colpito tutto il mondo dell’intelligence. Ecco perché più di trecento ex membri dell’intelligence  che hanno servito con presidenti repubblicani e democratici hanno firmato una lettera di sostegno a Brennan. La lista è formata da ex membri di sicurezza e intelligence e  include i 15 ex capi della Cia di tutte le presidenze, da Ronald Reagan a Barack Obama. L’ha firmata persino William H. Webster, 95enne, ex direttore della Fbi e Cia in amministrazioni democratiche e repubblicane. I firmatari non sono necessariamente d’accordo con le idee politiche espresse da Brennan, ma rivendicano il diritto alla libertà di espressione per tutti. Un diritto messo in pratica da McRaven nel suo articolo sul Washington Post. L’ex ammiraglio sperava che  dopo l’elezione Trump  diventasse il presidente di cui il paese ha bisogno: uno che mette il bene degli altri prima di se stesso, servendo da modello per tutti. Trump, secondo McRaven,  ci ha “imbarazzati”  davanti agli occhi dei bambini,  e umiliati nel mondo. Ma la cosa peggiore è che “ha diviso la nazione”.

*Domenico Maceri è Professore emerito all’Allan Hancock College, Santa Maria, California  (dmaceri@gmail.com).

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