INTERVISTA/ Anna Castriota, docente all’Università di Oxford: «Covid-19, un virus che potrebbe cambiare le nostre democrazie»

di CARMINE CASTORO – Come negare che ci troviamo da settimane in un clima da distopia alla Orwell o alla Bradbury, che attraversiamo giorni caratterizzati da un vero e proprio impazzimento politico-mediatico e statistico, e da una legittima inquietudine legata allo stato della nostra salute pubblica e agli orizzonti prossimi della nostra economia? Un male nuovo che credevamo confinato in lande lontanissime serpeggia fra la popolazione – questo malefico e insidiosissimo Covid-19 -, i deficit strutturali della Sanità pubblica e la mancanza di posti letto in reparti nevralgici collaborano a creare il dilagare del panico; l’ansia, il dubbio, la grancassa social-televisiva diuturna e stressante porta a provvedimenti biopolitici dal sapore apocalittico: nel breve volgere di poche settimane ci ritroviamo in pieno isolazionismo di massa, denunciati per una passeggiata col cane, impediti nella mobilità, sospettosi del vicino, trasfigurati da enigmatiche mascherine, con le Borse che crollano, la produzione congelata, lo spettro della morte e della miseria che ribussano alle nostre porte dai tempi dei capponi di Renzo e Lucia. Un magma micidiale.

Professoressa Anna Castriota, lei è di origine foggiana ma insegna da tantissimi anni Politics and Terrorism al Saint Clare’s College dell’Università di Oxford, ed è ricercatrice al dipartimento di Storia dell’Università di Northampton: con l’infezione da Coronavirus siamo entrati in un incubo da film…

“La situazione generata dal Covid-19 ha trovato tutti impreparati e increduli di fronte alla sua gravità. Io stessa, ho subìto, con un misto di apprensione e curiosità, le misure adottate all’aeroporto di Napoli Capodichino quando sono tornata in Italia settimane fa per seri problemi familiari. Essere accolti al controllo passaporti da personale medico e militare con l’obbligatoria misurazione della temperatura corporea prima di avere il permesso di passare I controlli doganali, è stato insieme preoccupante e strano. Per la prima volta in venticinque anni che vivo all’estero – ad Oxford nel Regno Unito – mai mi ero sentita considerata cosi straniera nel mio stesso Paese. Per le persone come me che vivono da decenni tra due terre, il Covid-19 ha contribuito ad accentuare questo senso di spaesamento, di non essere parte di nessuna delle due terre in cui si vive a fasi alterne, sempre con l’anima divisa a metà, tra il Paese natio e quello d’adozione. Ecco, per la prima volta, all’arrivo all’aeroporto di Napoli, forse ho compreso appieno questo mio essere apolide, ma anche la gravità della situazione legata all’espandersi della pandemia del coronavirus”. 

Fra politica globale ed esperienze personali, il quadro da dipingere è a tinte fosche…

“Con l’occhio scettico dell’anglosassone d’adozione ho spesso criticato all’inizio di questa che definisco, un’avventura, l’esagerazione e il senso del drammatico, il potere dell’enfasi che abbiamo noi italiani: talk show televisivi, telegiornali, tam-tam via social mi facevano spesso considerare con sufficienza l’italiano medio e le sue fobie e manie, riflesse dai servizi di informazione e dalla classe politica, perfetto specchio del cliché italico. Poi sono rimasta bloccata qui, a Foggia mia città natale, perché questa quarantena forzata su tutto il territorio nazionale è avvenuta mentre mi trovavo qui. Bloccata. Ho iniziato a vedere strade deserte durante le mie rare escursioni al supermercato, ho iniziato a notare gente solitaria con mascherina e guanti di lattice, poche macchine in giro, e file indiane davanti a supermercati… Mi è sembrato lo scenario di un film post-apocalittico, di quelli che andavano tanto di moda negli anni della Guerra Fredda. Mi è sembrato tutto cosi spaventosamente assurdo”.

I massmedia certamente stanno svolgendo una parte considerevole: informare sì, ma spesso con margini di speculazione non tanto onorevoli…

“I miei contatti oltremanica e le notizie che leggevo sui siti della BBC e del The Guardian, riportavano il coronavirus in maniera neutrale. Mentre qui il tono dell’informazione e i dati pubblicati tendevano in maniera esponenziale alla tragedia, aumentando ogni ora il numero dei contagi e dei morti, provocando ansia e apprensione nel pubblico, nel Regno Unito si discuteva dell’annuale budget finanziario e dell’ultima partita di cricket. La gente continuava la vita di sempre andando al parco, nei pub, alle partite di calcio o rugby e le sole indicazioni date dalle autorità erano di lavarsi spesso le mani, di tossire e starnutire nel gomito e di utilizzare fazzolettini di carta. Fino a poche settimane fa, mentre ero ancora lì si vedevano in giro con le mascherine solo turisti o studenti di origine asiatica. Poi sono cominciati anche lì episodi di hate crime contro chiunque avesse l’aspetto vagamente orientale; la preoccupazione delle persone, leggendo le notizie internazionali e guardando al caso dell’Italia, ha cominciato a montare ma dalle autorità ancora nulla forse perché forti del fatto che nel Regno unito i casi erano inferiori a quelli per esempio dell’Italia o della Spagna”.

Poi c’è stato un repentino cambio di marcia.

“Sì, sir Wallace, uno dei massimi esperti britannici in epidemiologia e consulente esterno del governo Johnson ha iniziato a parlare di ‘immunità di gregge’ per contagio. E lo stesso Boris Johnson, attualmente ricoverato in Intensiva, premier britannico in carica, ha in un discorso alla nazione annunciato che molti devono essere pronti a veder morire i propri cari prima del tempo. La dichiarazione di Johnson, benché estrapolata dal contesto, ha spaventato molto il pubblico britannico e molti intellettuali e giornalisti hanno parlato di ‘eugenetica’ e di ‘darwinismo sociale’. Io ho iniziato a pensare alla mia situazione personale”. 

Vede una linea comune fra Italia e Inghilterra o differenti approcci per differenti politiche e abitudini nazionali?

“Se da un lato vedo un governo, quello Italiano, che ha deciso nonostante tutto di mettere la salute dei propri cittadini al primo posto invece dell’economia, dall’altro vedo invece un governo, quello conservatore di Johnson, dove l’ideologia liberista thatcheriana ha messo invece al primo posto la tenuta dell’economia invece della salute dei suoi cittadini, questo anche in chiave post-Brexit, visto che l’isolamento della Gran Bretagna rispetto agli altri paesi europei in questo frangente si fa sentire ancora più forte. Che dire? Anche se in questi ultimi giorni il governo britannico sembra finalmente aver preso sul serio la minaccia del Covid-19 e sta cominciando a scopiazzare i cugini europei nell’adottare misure di contenimento per fronteggiare lo spandersi dell’epidemia, io penso alla mia reazione iniziale di sufficienza e forse un po’ snob con cui giudicavo I miei connazionali, e mentre cammino solitaria e munita di mascherina e guanti di lattice d’ordinanza per le strade vuote di Foggia, della città della mia infanzia e giovinezza, osservo le file ordinate per entrare al supermercato, e la collaborazione e il senso di solidarietà tra i suoi abitanti, e confesso che mi sono commossa nel vedere così tanto senso civico e senso di solidarietà: non mi sono mai sentita cosi orgogliosa di appartenere a questa terra”. 

La “pandemia” che stiamo vivendo porterà sottili e profonde trasformazioni politiche e comportamentali secondo lei? Le nostre democrazie sono a rischio?

“La questione del Coronavirus fornisce nuovi spunti di riflessione, soprattutto di tipo politico. Cosa ne sarà del modello di global governance che sembra ormai dominare da decenni lo scenario politico? Oppure, dopo il primo periodo di sbandamento, si tornerà alle vecchie abitudini? Dal punto di vista politico, quello che osservo con non poca apprensione è un lento ma inesorabile demandare all’autorità decisioni vitali che in realtà toccano da vicino l’esistenza del singolo e della comunità. Leggevo su La Repubblica che il premier Conte ha superato il 51% di popolarità. Abbiamo bisogno di un ‘uomo forte’ che mostri i muscoli del potere con decreti, polizia e militari per le strade a controllare i nostri spostamenti, e ci sentiamo soddisfatti di questa lenta ma inesorabile erosione dei più elementari diritti costituzionali di cui godiamo in un paese democratico? Aveva forse ragione Thomas Hobbes? Cambierà il modo in cui ci rapporteremo alla politica, ai politici e alla democrazia?, oppure la democrazia come l’abbiamo sempre intesa, verrà ridimensionata purché si stia bene, purché il nostro piccolo orticello venga salvaguardato? Siamo allora pronti a rinunciare ad alcune libertà personali che fino a ieri erano considerate sacre? Forse siamo pronti ad un cosiddetto nanny State che si prende cura di noi in ogni aspetto della nostra vita…”.

Commenta per primo

Lascia un commento