di FEDERICO BETTA – Due corpi, due voci, un incantato fioccare di neve. Ci accoglie con un tipico quadro astratto Una storia di fantascienza. Quante ne sanno i trichechi, l’ultimo lavoro di Liv Ferracchiati al Teatro India di Roma. Ma quello che appare non permane, come le onde infrante da una nave spacca-ghiaccio immersa nei confini artici della Terra. Nato a Todi nel 1985 e diplomato in regia alla Paolo Grassi di Milano, Ferracchiati è un autore, scrittore, performer che lavora sulla costruzione della scena teatrale e sulle identità, spostando continuamente il fuoco della messa in scena, della lingua, del punto di vista del pubblico.
“Lo vedi?” “No. Cosa?” “L’uomo?” Che cosa vediamo e che cosa non vogliamo vedere della nostra vita? Sembrano domande pretestuose, piene di un carico filosofico facile a sfibrarsi. Ma attorcigliate a un lavoro sull’identità di genere e sui codici di messa in scena, sulle convenzioni della lingua e le regole sociali, diventano la piattaforma per uno sguardo che cerca oltre. Amalgamandosi attorno ad esse, lo spettacolo impasta una riflessione sulla condizione irrimediabilmente borghese delle nostre società intellettuali, all’analisi linguistica e corporea della creazione artistica. Continuamente lambendo il vissuto dell’autore stesso, ci e si guarda attraverso una profondità talmente surreale in cui è possibile innamorarsi di Wikipedia (non della conoscenza diffusa dalla piattaforma, ma proprio di una concretizzazione pseudo-umana dell’enciclopedia condivisa “Wikipedia”).
In scena con Ferracchiati, Petra Valentini da corpo con forza e commozione a una compagna piena di desiderio e paura, a una spalla sulla quale tutte le contraddizioni si infrangono per non sopirsi. Come passasse per caso le accompagna Andrea Cosentino, per la prima volta attore in uno spettacolo non suo, che imprime una definitiva rottura performativa della tradizione scenica, portando sul palco le risonanze della sua cifra autoriale che perennemente ci interroga e destabilizza.
La fantascienza del titolo fa riferimento a una catastrofe ecologica ormai in atto, per contrastare la quale è necessario trasportare un carico di trichechi nella stiva di una nave diretta verso i ghiacci del Polo Sud. È una figura, questa della nave, che emerge nel salotto borghese come un’apparizione senza motivo, eppure è piena di sensi nel suo testimoniare un estremo tentativo di scongiurare la fine dell’umanità. Un’umanità che è fragile come le nostre stesse identità: “Se mi passo con un colino, cosa rimane di me?” . Ecco un’altra domanda cruciale che prosegue l’inchiesta sui tempi fluidi di oggi. Cercando di non far scivolare tutto in mare, è come se lo scandaglio della propria identità fosse sempre rinviato a un confronto con il fuori, come se a definirci fosse sempre la relazione con il contesto, con l’altro da noi. E allora è come se la nave che appare segnata dalle convenzioni più trite del cinema di genere fosse l’unica possibile scialuppa per affondare sempre di più nelle nostre oscurità, ma continuamente circumnavigandoci, evitando solertemente di chiuderci in un unico e definitivo discorso che conclude l’inchiesta.
E forse è proprio questa la forza di uno spettacolo, per alcuni versi esile e punteggiato da incomprensibili didascaliche sottolineature. Continuamente provocando le convenzioni è come se tenacemente resistesse a volersi concludere, non volesse pacificarsi. Ma anzi Ferracchiati, rigiocando ironicamente un iconico finale cinematografico di fine millennio, ci forza a tenere aperti i sensi su ciò che ci accade dentro. E quindi su tutto ciò che ci circonda.
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