OSSERVATORIO AMERICANO/ Se la sconfitta può voler dire vittoria per Trump

Domenico Maceridi DOMENICO MACERI*

“E alla fine di quattro anni vi garantisco che riceverò il 95 per cento deI  voti afro-americani”. Con queste parole Donald Trump sfidava gli elettori afro-americani a votare per lui promettendo loro grandi miglioramenti. Al momento, però, i sondaggi ci dicono che Trump riceverebbe solo l’uno per cento dei vot afro-americani.

Dopo lo scossone alla sua campagna elettorale, che ha messo da parte  Paul Manafort come suo manager e elevato Kellyanne Conway e Stephen K. Bannon al ruolo di nuovi dirigenti, Trump ha cominciato a cambiare tono. Infatti, ha persino accennato a delle scuse, dicendo che gli “rincresce” se nella campagna ha detto cose che hanno causato dolore a qualcuno. Trump non ha spiegato a chi si riferisse specificamente. Voleva chiedere scusa per gli insulti ai diversi gruppi,  come i messicani, le donne, la stampa, i disabili ecc.? O si riferiva a individui in particolare come la maggioranza dei suoi avversari alle primarie, John McCain, la famiglia Khan, ecc.? Oppure si riferiva a tutti gli americani per le volgarità espresse finora nella sua campagna elettorale?

Trump non ha fatto chiarezza né l’hanno fatta i suoi nuovi dirigenti. La Conway in un’intervista ha evaso la risposta dicendo che Trump si concentra su questioni importanti che preoccupano gli elettori. Per intorbidare di più le acque Trump ha anche suggerito una linea moderata sull’immigrazione ma subito dopo ha reiterato l’importanza della costruzione del muro al confine con il Messico.

Nonostante questi piccoli cambiamenti di tono, Trump rimane Trump, un candidato che si è già autodefinito per cui sarà difficile sterzare verso il centro e migliorare la sua situazione  che i sondaggi lo danno per sconfitto a novembre. Prendendo spunto da questa eventualità il Partito Repubblicano ha già cominciato a ripetere la strategia del 1996, quando  scaricò l’allora candidato Bob Dole vedendolo perdente. I leader del Gop spostarono le loro risorse sui candidati alla Camera ed al Senato per cercare di evitare una sconfitta totale. Come abbiamo scritto su questo giornale in precedenza, non pochi leader repubblicani hanno già preso le distanze da Trump per paura di affogare nella nave del loro capitano. Altri continuano con le loro defezioni.

In alcuni casi queste defezioni sono di intuiscono dagli annunci pubblicitari  in preparazione da parte dei repubblicani, che sottolineeranno l’idea di controbilanciare un’eventuale presidenza di Hillary Clinton. Usando l’impopolarità dell’ex first lady, il superpac American Crossroads, fondato da Karl Rove, guru dell’ex presidente George W. Bush, sta discutendo proprio questa idea di  non spendere risorse su Trump e concentrare gli sforzi sugli altri candidati per ridurre il potere di una eventuale presidente Clinton. Anche lo speaker della Camera, Paul Ryan, parlamentare repubblicano del Wisconsin, sta concentrando i suoi sforzi nella raccolta di  fondi per “proteggere la maggioranza repubblicana alla Camera onde evitare un assegno in bianco a Hillary Clinton”.

In effetti, Trump non è riuscito ad unificare il suo partito spostandosi al centro dopo la convention repubblicana. Eccetto per qualche comizio letto, mediante il teleprompter, il magnate di New York continua in linee generali lo stesso tipo di campagna che gli ha permesso di vincere le primarie. Lo stesso stile di attacchi verso il sistema, la stampa e Hillary Clinton. Uno stile caratterizzato da complottiamo, che include l’accusa a Barack Obama e alla Clinton di essere “fondatori” di Isis, che l’elezione sarà truccata e che per questo forse perderà, e che la sua avversaria è malata e  per questo inadatta al ruolo di presidente.

Non c’è nessuna prova per le sue asserzioni, ma poco importa. Ripete le falsità che la stampa continua a diffondere e naturalmente credute dai suoi fedelissimi. Il problema però è che queste non convincono la fetta dell’elettorato indipendente che decide le elezioni. Ecco perché i sondaggi continuano a dare Trump come perdente a novembre.

Ma forse lui ne uscirà vincitore perché in fondo sa che il suo obiettivo finale non era la presidenza ma rafforzare il suo marchio. In ciò ha avuto successo che potrà essere confermato anche in caso di  sonora sconfitta. Nel 2012 Mitt Romney ha ricevuto quasi 61 milioni di voti. Anche se Trump non raggiunge questa cifra vi si avvicinerà. Si tratta di grossi numeri che gli potranno essere utili  nelle sue future attività post elettorali per rafforzare il suo marchio e creare un impero di mass media. Trump userebbe i talenti del suo nuovo manager  Stephen K. Bannon e quelli di Roger Ailes, già amministratore delegato alla Fox News, licenziato da Rupert Murdoch per le accuse di molestie sessuali. Il marchio Trump continuerebbe a “brillare” anche se lui non risiederà alla Casa Bianca.

*Domenico Maceri docente di lingue all’Allan Hancock College, Santa Maria, California  (dmaceri@gmail.com)  

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