OSSERVATORIO AMERICANO/ Il falso mito della capacità dei repubblicani di saper gestire l’economia meglio dei democratici

di DOMENICO MACERI*I sondaggi per le presidenziali americane non sorridono a Donald Trump secondo un’ultima inchiesta del Washington Post/ABC (Joe Biden 54%, Trump 42%). Un barlume di speranza al presidente in carica viene però offerto dall’economia, che gli americani considerano il tema più importante (29%) mentre la giustizia sociale e la sanità ricevono il 14% ciascuna e la sicurezza l’8%. Trump è visto con occhi benevoli sulla questione dell’economia dal 54% degli intervistati che approvano il suo operato mentre il 45% contrari la disapprova. Gli americani danno però voti poco rassicuranti al 45esimo presidente sul suo metodo di affrontare la pandemia del Covid-19 (41% favorevoli e 58% contrari).

Sorprende che Trump sembri avere la meglio sull’economia considerando lo stato attuale del tasso di disoccupazione (7,9 per cento, ossia 12,6 milioni di disoccupati), un miglioramento rispetto a qualche mese fa, quando era al 14%, nel punto peggiore della pandemia nel mese di aprile. Il miglioramento, però, non riflette tutta la realtà  poiché non include coloro che hanno smesso di cercare lavoro le cui file vengono escluse dai calcoli. Non include nemmeno quelli che hanno visto ridursi le loro ore lavorative. Si tratta, secondo alcuni calcoli più dettagliati, di altri 5 milioni di disoccupati. Quando si aggiungono a quelli che erano già disoccupati prima dell’inizio della pandemia si arriva a un totale di 31 milioni di americani senza lavoro.

Dunque i sondaggi che sorridono a Trump sull’economia si spiegano con la mitologia secondo cui i presidenti repubblicani hanno più successo in questo campo perché si preoccupano soprattutto delle questioni fondamentali. Quando Trump entrò alla Casa Bianca ereditò un’economia in buono stato che per i primi tre anni e mezzo, fino all’inizio della pandemia, continuò in terreno positivo principalmente per il lavoro fatto dal predecessore, Barack Obama. Trump, però, è stato molto abile nel creare un’immagine di sé come uomo di affari e quindi esperto di questioni economiche. È stato molto bravo, come sempre fa quando le cose vanno bene, ad accaparrarsi dei meriti, mentre quando le cose vanno male affibbia sempre la colpa ad altri.

Trump non è tanto diverso da presidenti repubblicani del passato che hanno costruito una reputazione mostrandosi impegnati più sull’economia che sulle questioni sociali, tipicamente associate di più ai programmi del  Partito Democratico. I fatti però ci dicono che storicamente l’economia è andata meglio con amministrazioni democratiche. Nel periodo successivo alla seconda guerra mondiale l’indice della borsa statunitense Standard and Poor (S&P), che segue le 500 aziende più importanti, è aumentato dell’11% durante le presidenze democratiche ma solo del 6,9% durante le presidenze repubblicane. Dagli anni ottanta, cioè dai tempi di Ronald Reagan all’era di Trump, i presidenti repubblicani hanno amministrato durante quattro recessioni, definite come due trimestri consecutivi di decrescita economica. Invece negli anni delle presidenze democratiche le recessioni sono state zero.

Alcuni analisti hanno affermato che i democratici al governo mettono più soldi nelle tasche degli individui che in quelle delle corporation. I soldi in tasca alla classe media vengono spesi per comprare i prodotti che le aziende producono, riciclando i quattrini e creando benessere per tutti. Inoltre i democratici mirano a lungo termine, investendo di più nelle scuole e nelle infrastrutture. Di solito aumentano le aliquote alle classi abbienti senza però che provochino una diminuzione del numero dei ricchi. I repubblicani al comando, invece, riducono le aliquote alle classi alte senza però preoccuparsi dei deficit poiché fanno pagare le spese alle future generazioni ricorrendo ai prestiti.  L’esempio più evidente lo si riscontra nel periodo dell’amministrazione di George W. Bush (2000-2008), che non solo ridusse le tasse alle classi alte e alle corporation ma poi intraprese le guerre in Iraq e Afghanistan senza chiedere agli americani aumenti di tasse per coprirne i costi. Tutte queste spese sono state ovviamente responsabili di aumenti notevoli del deficit e del debito nazionale.

I sondaggi ci dicono che Biden sarà eletto presidente tra meno di due settimane. Nel primo e apparentemente unico dei tre programmati confronti Trump ha accusato Biden di essere nelle mani dei socialisti. L’ex vicepresidente dell’èra Obama, difatti, ha un piano economico tipico di amministrazioni democratiche del passato. Include aumenti delle aliquote fiscali per i benestanti con redditi annui da 400mila dollari in su e per le corporation, ma in modo limitato, in modo da non far paura a Wall Street, come confermano i recenti indici di S&P e Dow Jones. Biden non spaventa più di tanto le corporation perché queste sanno benissimo che è un moderato e non il socialista estremista che Trump cerca di dipingere.

Una volta eletto presidente, Biden avrà un compito molto simile a quello che spettò ad Obama nel 2008, quando prese le redini da George W. Bush, cioè quello di mettere a posto l’economia a brandelli. Il compito di Biden, però, sarà molto più difficile perché dovrà ancora fare i conti con la pandemia. Dovrà altresì unificare il Paese e calmare le scosse orripilanti causate da Trump alle strutture democratiche e etiche ma anche ricucire i rapporti con gli alleati tradizionali in Europa e nel resto del mondo.

*Domenico Maceri, PhD, è professore emerito all’Allan Hancock College, Santa Maria, California (dmaceri@gmail.com).

 

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