Bengalesi di famiglie benestanti i jihadisti dell’assalto terroristico a Dacca. Chi sono i 9 italiani uccisi

Vittime italiane Dacca

I sei membri del commando che venerdì sera ha attaccato la Holey Artisan Bakery di Dacca, uccidendo almeno 20 persone, fra cui nove italiani e 7 giapponesi, “erano tutti bengalesi” e figli di famiglie benestanti (uno addirittura figlio di un politico appartenente al partito di governo) convertitisi al jihadismo. Jihadisti di DaccaLo ha sostenuto l’Ispettore generale della polizia del Bangladesh, AKM Shahidul Hoque. Al quotidiano, Hoque ha precisato che dei sei, almeno cinque erano certamente militanti che le forze dell’ordine nazionali stavano cercando di arrestare da tempo.     “Li abbiamo cercati in molti luoghi in tutto il Paese – ha infine detto – ed ora sono stati uccisi qui”. Le loro foto (qui riprodotte) sono apparse su Facebook.

Da quando sono cominciati gli omicidi di stranieri, intellettuali e membri di minoranze religiose in Bangladesh, il governo ha sempre respinto l’ipotesi dell’esistenza sul territorio nazionale di cellule dell’Isis o di Al Qaida, movimento che spesso hanno rivendicato i cruenti attentati. Il ministero dell’Interno a Dacca ha sempre sostenuto che gli autori degli omicidi erano militanti fondamentalisti locali.

I NOVE ITALIANI UCCISI. 

I nostri connazionali assassinati sono (nella foto da sinistra e dall’alto in basso): Cristian Rossi, Vincenzo D’Allestro, Maria Riboli; Nadia Benedetti, Simona Monti, Marco Tondat; Adele Puglisi, Claudio Cappello, Claudia D’Antona.

Cristian Rossi, imprenditore del Nord-Est . Sposato e padre di due gemelline di 3 anni, Rossi era stato manager alla Bernardi. Dopo alcuni anni si era messo in proprio. Era in Bangladesh per motivi di lavoro. Era nato a Feletto Umberto (Udine), dove abitava con la famiglia.

Marco Tondat, imprenditore del Nord-Est –  Aveva 39 anni. Era nato a Spilimbergo (Pordenone), ma viveva a Cordovado. “Ci eravamo sentiti ieri mattina – ha riferito il fratello – doveva rientrare in Italia per le ferie e abbiamo concordato alcune cose, lo aspettavo per lunedì. Era un bravo ragazzo, intraprendente e con tanta voglia di vivere”. Il fratello di Tondat ha quindi detto che Marco “era partito un anno fa, perchè in Italia ci sono molte difficoltà di lavoro e ha provato ad emigrare. A Dacca era supervisore di un’azienda tessile, sembrava felice di questa opportunità. A tutti voglio dire che quanto accaduto deve far riflettere: non è mancato per un incidente stradale. Non si può morire così a 39 anni”.

Claudia Maria D’Antona, il suo scopo era aiutare il prossimo –“Mia sorella Claudia e suo marito Giovanni erano una coppia fantastica, due persone d’oro, con un grande impegno nel volontariato”, dice Patrizia D’Antona, all’ANSA. “Finanziavano – spiega – un’associazione che porta esperti di chirurgia plastica in Bangladesh per curare le donne sfregiate con l’acido. Aiutare il prossimo era sempre in cima ai pensieri di Claudia e di suo marito. Si erano sposati due anni fa, con una bellissima cerimonia a Dacca, dopo avere convissuto per oltre 20 anni”.

Nadia Benedetti, la manager che amava il canto – Adorava cantare, la musica e le canzoni di Franco Califano. Ogni volta che tornava nella sua Viterbo non mancava mai di passare al karaoke nel ristorante del fratello Paolo. Sorrideva, si divertiva. Chi la conosceva la ricorda come una persona gioiosa, da sempre dedita al lavoro che l’ha portata a girare mezzo mondo, fino ad arrivare in Bangladesh, dove ieri è rimasta vittima di quelli che la nipote Giulia, su Facebook, definisce “un branco di bestie”. Nei prossimi giorni l’amministrazione comunale rispetterà un giorno di lutto per ricordare Nadia Benedetti, manager 52enne e figlia di imprenditori, che proprio da Viterbo ha mosso i primi passi nell’industria tessile.

Simona Monti lavorava in una azienda tessile – Aspettava un bambino e aveva già prenotato un volo che all’inizio della prossima settimana l’avrebbe riportata in Italia, a Magliano Sabina (Rieti), per un lungo periodo di aspettativa. Dalla scorsa estate, dopo diverse esperienze di studio e lavorative in oriente, aveva scelto il Bangladesh per vivere e lavorare in un’azienda tessile.

Maria Riboli lavorava in una impresa di abbigliamento.  Mamma di una bimba di 3 anni, spesso in giro per il mondo per il suo lavoro, avrebbe compiuto 34 anni il prossimo 3 settembre. Era nata ad Alzano Lombardo, in val Seriana. La sua famiglia è originaria di Borgo di Terzo, piccolo centro della valle Cavallina. Dopo il matrimonio, celebrato il 21 marzo 2006, Maria Riboli si era trasferita con il marito, Simone Codara, a Solza, paese di duemila abitanti dell’Isola bergamasca. Maria Riboli lavorava nel settore dell’abbigliamento e si trovava in viaggio per lavoro per conto di un’impresa tessile. Da diversi mesi era in Bangladesh.

Adele Puglisi, attualmente manager di Artsana.  Una donna “buona, solare, che amava i viaggi e il mare”. Era così per gli amici e i parenti Adele Puglisi, 54 anni, assassinata alla vigilia del suo rientro a Catania, dove abitava, anche se nella sua città d’origine, raccontano i vicini, “stava al massimo 20 giorni l’anno”, perché, spiegano, “era sempre in giro per il mondo per il suo lavoro”. Era lei stessa a descriversi così sul suo profilo Facebook, pubblicando sue foto al sole e al mare. Il 16 novembre del 2015 aveva postato la prima pagina di ‘Libero’ sulla strage di Parigi commentando il titolo (‘Bastardi islamici’) con un secco “è vergognoso” e aderendo a una petizione che lo contestava. Ma sul social network ricostruiva anche la sua vita lavorativa: era a Studiotex fino al 2010, poi è partita e si è trasferita nello Sri Lanka, dove è stata fino ad aprile del 2014, quando ha cominciato a lavorare per Artsana, come manager quality control a Dacca.

Vincenzo D’Allestro, imprenditore tessile del Sud – Abitava con la moglie, Maria Gaudio, nella mansarda di una palazzina rosa di quattro piani del Parco Azalea ad Acerra (Napoli). Imprenditore tessile, Vincenzo D’Allestro, 46 anni, era quasi sempre fuori per lavoro.

Claudio Cappelli, impreditore del Nord – Aveva una impresa nel settore tessile che produceva t-shirt, magliette, abbigliamento in genere e anche intimo. “Diceva di avere avuto una esperienza positiva e di essere contentissimo. Era da più di 5 anni impegnato in questa ‘avventura’. Era entusiasta e diceva che il Bangladesh è un Paese dove si poteva lavorare molto bene”, ricorda il console generale onorario del Bangladesh in Veneto, l’avvocato Gianalberto Scarpa Basteri .

Sono 7 i giapponesi assassinati.  E nella tarda notte di sabato il governo di Tokyo ha confermato la morte di 7 cittadini giapponesi, 2 donne e 5 uomini, nell’attacco terroristico di Dacca in cui hanno preso la vita 9 italiani, ma ha evitato di rilasciare le generalità per rispetto ai familiari, una pratica diffusa in Giappone. In una conferenza stampa il capo di Gabinetto Yoshihide Suga ha detto che le vittime sono state identificate tramite fotografie e oggetti personali, e al momento dell’attentato si trovavano in Bangladesh per ragioni di lavoro, in rappresentanza dell’Agenzia giapponese di cooperazione internazionale. Un altro cittadino nipponico che lavorava per la stessa agenzia, era stato liberato nel blitz della polizia e non si trova in pericolo di vita. Le autorità giapponesi hanno già inviato un aereo governativo nel paese del sud est asiatico per il trasporto in patria delle salme e per fornire assistenza ai familiari.

Dallo scorso settembre in Bangladesh gruppi di stranieri e minoranze religiose sono stati oggetto di aggressioni da parte di fazioni di estremisti islamici, sebbene gli attacchi ai ristoranti o luoghi pubblici siano una rarità. In ottobre un cittadino giapponese di 66 anni, Kunio Hoshi, a capo di un progetto agricolo nel nord del paese, era stato ucciso da uomini armati. Una cellula dell’Isis aveva rivendicato la responsabilità dell’attentato.

L’assalto. Erano le 21:20 ora locale (le 17:20 in Italia) di venerdì 1° luglio quando un commando di 7 jihadisti ha fatto irruzione nell’Holey Artisan Bakery di Dacca uccidendo due poliziotti e prendendo in ostaggio le persone che erano nel locale, tra cui 11 italiani che erano insieme a cena. Solo alcune ore dopo  un centinaio di uomini del Battaglione di azione rapida della polizia bengalese hanno compiuto il blitz nel ristorante, avendo intuito che ogni trattativa con i terroristi era ormai inutile e che costoro avevano fatto già una ventina di vittime, alcune decapitandole con lame affilate dopo un interrogatorio sommario a base di recita di versetti del Corano.

Le teste di cuoio nella notte avevano cercato di trattare con loro, ma senza risultato. Un sito legato all’Isis, Amaq, che aveva già pubblicato la rivendicazione del Califfato all’attacco, ha diffuso foto di presunte vittime all’interno del ristorante: cinque o sei cadaveri di donne e uomini per terra, in pozze di sangue, fra i tavoli con ancora i resti della cena. L’attacco delle teste di cuoio è durato una decina di minuti, durante i quali si sono sentiti spari ed esplosioni.

L’irruzione della polizia – che ucciso 5 terroristi arrestandone due –  ha salvato 18 ostaggi, ma la strage era stata compiuta: le vittime erano i nostri connazionali e un gruppo di giapponesi.

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