L’ALTRO DEGLI ALTRI/ Il No di Gaetano Quagliariello, il “saggio” che ha provato a riformare la Costituzione

quagliarielloOggi vi proponiamo nella rubrica “l’Altro degli altri” questa intervista che Fabrizio d’Esposito – uno dei giornalisti italiani più arguti –  ha fatto per “Il Fatto quotidiano” al senatore Gaetano Quagliariello, già capogruppo di Forza Italia, poi fondatore, con Alfano, del Nuovo centrodestra e ministro delle Riforme con il governo Letta, attualmente presidente del movimento “Idea” (acronimo di “Identità e azione”). Fece parte della commissione di 10 saggi nominata da Napolitano per lo studio di una proposta di riforma costituzionale e poi, da ministro delle Riforme, guidò la commissione dei “35 saggi” formata da Enrico Letta. La sua è una testimonianza illuminante  per orientarsi nel valutare come comportarsi nel referendum del 4 dicembre.

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di FABRIZIO D’ESPOSITO

«Il No del senatore Gaetano Quagliariello origina da una tormentata confessione: “Ho fatto di tutto per votare Sì. Aggiungo anche che considero questo No una sconfitta personale, ma la politica non può andare oltre un certo limite, soprattutto quando si parla di Costituzione”. Quagliariello è un convinto riformista della Seconda Repubblica. È stato berlusconiano, poi fondatore di Ncd nonché “saggio” del Quirinale e ministro delle Riforme nel governo di Enrico Letta. Oggi è il presidente del movimento Idea, cioè Identità e azione. A lui si deve una delle sintesi più efficaci sul vasto fronte del No al referendum: “Quando si discute di Costituzione si decidono le regole della convivenza civile e la convivenza civile è convivenza tra diversi”.

La demagogia renziana del Sì si diverte parecchio con i “diversi” del No.

Non avrei mai immaginato di trovarmi con Gotor in un garage, con Spataro in un giro di manifestazioni, con Freccero a cena. Sono persone che consideravo e considero avversari politici, ma questa non è una battaglia tra partiti. È una questione più alta. Io la chiamo coesione nazionale sulle regole della nostra convivenza civile.

È quella coesione nazionale che lei, inizialmente, perseguiva per fare le riforme istituzionali. Alle sue spalle, lei espone ancora le foto coi saggi e poi da ministro. Era tre anni fa.

Noi c’eravamo dati un metodo, di fronte a una crisi delle istituzioni in un contesto drammatico. Il 2013 era il settimo anno di una crisi economica pesantissima, dalla durata maggiore delle guerre mondiali del secolo scorso. La nostra ricetta fu: uniamo il Paese nelle regole, rafforziamo la coesione nazionale e poi dividiamoci sui princìpi rinnovati.

Ricapitoliamo: Bersani non vince le elezioni del 2013, c’è il clamoroso bis di Napolitano al Colle, poi la nomina dei dieci saggi, infine il governo Letta.

Guardi, nonostante tutto, noi riuscimmo a scrivere delle relazioni e a votare all’unanimità. Accadde sia con la commissione voluta da Napolitano sia con quella che guidai da ministro delle Riforme.

La commissione dei 35.

C’erano docenti universitari di tutte le correnti politiche. Persino la Carlassare e la Urbinati quando lasciarono scrissero una lettera per elogiare la bontà del metodo seguito.

Però il vostro punto d’arrivo era un’altra commissione, quella dei 40, stavolta parlamentare e con poteri legislativi.

Voi del Fatto ci accusaste di introdurre una distorsione all’articolo 138 della Carta (quello sulla revisione costituzionale, ndr). Tuttavia c’erano vari punti positivi.

Quali?

Il primo: il governo avrebbe svolto il ruolo di supervisore, e non di giocatore come adesso.

Poi?

Ancora prima che la Consulta si esprimesse contro il Porcellum sull’illegittimità del premio di maggioranza, noi avevamo deciso di ripartire in maniera proporzionale i componenti della commissione, cioè in base ai voti dei partiti e non ai seggi. Un’ulteriore garanzia sul metodo.

Naufragò tutto.

Si era già capito che Renzi avrebbe vinto le primarie nel dicembre 2013 e quando lui attaccò la commissione dei 35 andai da Letta e Alfano. Ero pronto a dimettermi, volevo salvare le riforme mandandole in Parlamento.

E loro?

Dissero di aspettare. Fu immaginato un patto tra Letta e Renzi. Il primo avrebbe continuato a governare, il secondo a fare le riforme.

In realtà a Renzi interessava solo il potere: arrivare a Palazzo Chigi.

Esatto. Capii che le riforme avrebbero “cambiato verso” quando il nuovo governo, invece di lasciarle al Parlamento, se ne impossessò, contravvenendo a quanto concordato.

In questo percorso ci fu un altro trauma: la decadenza di B. nell’autunno del 2013, per la condanna definitiva Mediaset e gli effetti della legge Severino, e la vostra scissione di Ncd dagli azzurri.

Continuo a ritenerla un’inaccettabile forzatura nei suoi confronti e nei confronti dello Stato di diritto per la violazione del principio di non retroattività.

Detto questo.

A Berlusconi, una volta, feci presente che aveva condannato una formula di unità nazionale, in cui poteva contare su cinque ministri, per accedere a una fase di appoggio esterno con un accordo che poi non è stato rispettato da qualcuno (Renzi, ndr) che al tempo della decadenza aveva detto “Game over”.

Il fatidico patto del Nazareno. Il secondo percorso delle riforme, quello decisivo. Lei, all’inizio, disse sì.

Votai la prima versione, ma già sulla seconda versione in Senato avevo molte remore. Così ebbi una lunga discussione con Anna Finocchiaro del Pd, presidente della commissione Affari costituzionali, che mi chiese di aspettare perché era ancora tutto aperto.

Non bastò.

Andai da Alfano in estate (nel 2015, ndr) e gli comunicai che se non avessimo avuto cambiamenti per il ddl Boschi e l’Italicum saremmo dovuti uscire dal governo, assicurando il sostegno esterno ma votando contro le riforme.

Alfano tirò dritto, senza deragliare dai preziosi binari di governo.

Ci fu una drammatica riunione in cui spiegai che sarei andato all’opposizione. E, ovviamente, ho negato il mio voto finale alla riforma.

Alcuni malignarono che lei voleva solo una poltrona di governo.

Le confesso una cosa. Quando Lupi si dimise, Alfano a caldo mi disse che ero il candidato alla successione.

E lei?

Gli risposi: “Angelì non scherzare, io non riesco nemmeno a tenere i conti a fine mese a casa mia, figurati se posso fare il ministro delle Infrastrutture”. Anche in seguito mi furono offerti altri posti. Ma il punto non era questo, altrimenti non sarei sceso dal carro di Renzi quando tutti sgomitavano per salirci.

Il nodo della riforma Boschi e la sudditanza di Alfano al premier.

Al governo non solo non interessava più il metodo, ma neanche la sostanza. Quello che poi è accaduto con il voto di fiducia sull’Italicum è stato gravissimo: un’aula vuota dove nemmeno il partito del premier era al completo. In un Parlamento su cui pesa l’illegittimità riscontrata dalla Consulta sul premio di maggioranza del Porcellum.

Lei ruppe pure con Napolitano.

In realtà non ho mai interrotto il dialogo con lui e gli ho detto che questa riforma tradisce il discorso che fece dopo la rielezione.

Perché?

Napolitano si augurò un compromesso largo in Parlamento, non un governo che si assume la responsabilità di questo processo. Perdipiù con un Pd che ha avuto troppi seggi col premio illegittimo.

Così lei oggi si ritrova con D’Alema.

Al contrario di Renzi e Verdini non abbiamo alcuna intenzione di fare un governo insieme, ma che differenza di cultura politica rispetto al premier. Renzi è un politico che non ammette alleati, solo subordinati».

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