Quando l’«accoglienza» diventa una colpa e una complicità

di ENNIO SIMEONE – C’è da attendersi l’immancabile, ennesima pioggia di lacrime per la nuova tragedia del mare che si è consumata oggi davanti alle coste libiche. Forse è il caso di dirlo con crudeltà: lacrime di coccodrillo! Perché forse è ormai il caso di ammettere che è diventata una colpa grave, un atto di irresponsabile pietismo sventolare la bandiera dell’accoglienza all’indirizzo di quella  massa di sventurati che affrontano massacranti traversate del deserto e disumane traversate su barconi a mala pena galleggianti nella speranza di approdare in un mondo migliore. E troppo spesso, se non finiscono in pasto ai pesci, saranno costretti a vivere per mesi, salvo rarissime eccezioni, rinchiusi in recinti che somigliano a campi di concentramento.

Molti di loro lo ammettono: “se avessimo saputo che cosa ci attendeva non saremmo mai venuti fin qui”. Infatti quando finalmente riescono ad imbarcarsi sulla costa libica si aspettano, appena arrivati in Italia, di ricevere un alloggio e un lavoro, e si meravigliano di non ricevere né l’uno né l’altro. Perché loro non sanno, non immaginano, che in questo paese ci sono alcuni milioni di persone, nate qui, che aspettano da una vita di avere non solo un alloggio e un lavoro, ma il necessario per alimentarsi e sopravvivere. Probabilmente sugli smartphone di cui molti di loro sono dotati vedono le immagini sfolgoranti delle nostre città e i lustrini dei varietà televisivi e pensano, anzi hanno la certezza, che ce ne sia in abbondanza anche per loro. E per ottenerlo sono disposti anche a rischiare la vita  e a subire violenze nella traversata di un deserto o il naufragio su un barcone. Soprattutto, salire a bordo di un qualunque natante, ammassati come sardine, purché galleggi, pensano che rappresenti ormai un felice punto di arrivo.

E dopo mesi di penitenza in un recinto monta la delusione, poi la rabbia, infine la protesta contro chi li ha salvati e “accolti”. E in fondo hanno ragione: li abbiamo salvati dalle onde ma non dalla loro disperazione. Anzi, abbiamo aggiunto la loro disperazione a quella di alcuni milioni di italiani. E sarebbe ora di smetterla. Sarebbe ora di fare una grande campagna di informazione nei loro paesi su ciò che troveranno se approdano sulle nostre coste. Altrimenti siamo solo complici dei trafficanti che li raccolgono nel continente africano e li traghettano nel Mediterraneo. E diventiamo colpevoli delle vite inghiottite dal mare davanti alle nostre coste.

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