COMMISSIONI PARLAMENTARI/ Correzioni di norme e procedure per vaccinazioni, femminicidi e cellulari in auto

di GIOVANNI ONORATI 

VACCINARSI SI’, MA NON TROPPO – Strana settimana, quella del Senato. In Aula, dove si discuteva il nuovo Codice antimafia, ci si è incartati su questioni tecniche e regolamentari: accade quando la maggioranza commette qualche errore e nelle file delle opposizioni ci sono due vecchie volpi che il Regolamento lo conoscono a menadito come Roberto Calderoli e Antonio Azzollini. E nelle Commissioni si è fatto poco, anche perché i numeri sono sempre in bilico e tanto non si può rischiare. Però poi ci sono le scadenze, e un decreto da convertire è una di queste. Quello sui vaccini, ad esempio, è stato ammorbidito, come spesso accade, e non c’è nulla di male, visto che fino a prova contraria l’Italia resta una Repubblica parlamentare. Dal novero delle vaccinazioni obbligatorie sono spariti i due meningococchi, che, al pari di rotavirus e pneumococco, sono diventati “raccomandati” e soprattutto gratuiti su tutto il territorio nazionale. Restano l’esavalente e l’mpr, già oggi obbligatori, e si aggiunge la varicella, che quasi certamente si aggiungerà agli attuali morbillo parotite e rosolia per un vaccino tetravalente. Scelta da non tutti condivisa, visto che si tratta forse della malattia esantematica più frequente e meno pericolosa. In un colloquio col “Fatto quotidiano”, il direttore del Dipartimento malattie infettive dell’Istituto superiore di sanità, Giovanni Rezza, ha spiegato che a fronte di una mortalità contenutissima (2 casi ogni 100mila malati), la varicella può causare encefaliti negli adulti immunodepressi, nei neonati e nelle donne incinte. Si ritorna così alla famosa immunità di gregge: aumentare i tassi di vaccinazione (attualmente per la varicella siamo intorno al 30 per cento) per proteggere i più deboli. L’argomento resta spinoso, ed è anche per questo che si è deciso di abbassare da 7500 a 3500 euro il massimo della multa per le famiglie inadempienti e di togliere la norma che imponeva alla Asl di segnalare alla Procura della Repubblica presso il Tribunale dei minorenni il mancato rispetto della legge. Disposizione che nelle sue estreme conseguenze avrebbe potuto portare alla revoca della patria potestà.

FEMMINICIDIO, UNA TEMPESTA IN UN BICCHER D’ACQUA – A Voghera casalinghe ce ne saranno sempre di meno, però uno degli obiettivi del giornalismo resta quello di spiegare a persone meno acculturate e soprattutto più affaccendate quello che accade nel mondo. Solo che non bisognerebbe perdere di vista la realtà dei fatti. Semplificare sì, ma non troppo. Per esempio, giovedì esce la notizia che il centrodestra (Lega, Fi e Gal, gruppo autonomo di senatori eletti nelle liste del fu Pdl) hanno bloccato la legge che tutela i figli delle vittime di crimini domestici. Ossia gli orfani dei femminicidi. In realtà, i senatori Palma, Cardiello e Caliendo di Forza Italia, Di Maggio di Gal e Giovanardi (che oggi è in Federazione della Libertà, gruppo che raduna fittiani, ex forzisti ed ex grillini) hanno semplicemente ritirato il loro assenso all’assegnazione alla sede deliberante. Ossia, alla procedura che consente di accelerare i tempi e approvare un disegno di legge direttamente in Commissione, senza passare per l’Aula. Per attivarla, serve però che siano d’accordo tutti i componenti della Commissione, oltre al Governo. Come ha spiegato Palma, aver chiesto il ritrasferimento alla sede referente (ossia quella “usuale” per l’esame dei disegni di legge in Commissione, con successivo approdo in Aula) “si giustifica alla luce dell’esigenza di svolgere un esame più approfondito e senza condizionamenti”. In sostanza, il centrodestra chiede modifiche al testo della Camera e teme che la maggioranza riesca a blindarlo confidando nell’appoggio di Ala e M5S. Tanto che l’ex ministro non ha nemmeno escluso “un eventuale ritorno alla sede deliberante, qualora si dovessero registrare vere e significative aperture da parte della maggioranza in direzione di un miglioramento del testo”. Insomma, la legge non si è bloccata, ma semplicemente ha rallentato il suo iter. Certo, manca poco alla fine della Legislatura, ma, come spesso si è visto, se Pd e alleati puntano su un provvedimento riescono ad approvarlo senza problemi e anche in tempi brevi. Deliberante o referente che sia…

QUEL PICCOLO, ULTERIORE GIRO DI VITE SUI CELLULARI IN AUTO – Tempo fa girava su Internet e Whatsapp una notizia allarmante per la maggior parte degli italiani (quasi tutti, diciamoci la verità): chi semplicemente impugnava il cellulare mentre stava guidando, anche se fermo al semaforo, rischiava il ritiro della patente. Ovviamente era una bufala, ma perlomeno a fin di bene, e per rendersene conto basta uscire di casa. La legge non è cambiata: chi viene sorpreso a chattare o parlare allo smartphone rischia una multa da 161 a 646 euro e la decurtazione di 5 punti dalla patente. Da tempo la Polizia stradale chiede maggiore severità e anche il Governo aveva annunciato provvedimenti drastici: quello che è sul tavolo al momento è contenuto in nuovo testo adottato dalla Commissione Trasporti della Camera che modifica alcune norme del Codice della strada. Non c’è la sospensione della patente alla prima infrazione, come chiede la Polstrada, ma un raddoppio del periodo di fermo in caso di recidiva nei due anni successivi alla prima multa, periodo che attualmente va da 1 a 3 mesi e che passerebbe da 2 a 6 mesi. Inoltre, i punti in meno sulla patente sarebbero 10 e non 5. L’iter del testo, che contiene anche norme per contrastare l’elusione del bollo e delle imposte di trascrizione nel Pra in caso di immatricolazione all’estero, la precisazione che gli autovelox dovranno essere collocati ad almeno 300 metri di distanza dal segnale che indica l’obbligo di riduzione della velocità e la possibilità per i ciclisti di andare contromano sulle strade urbane dove il limite di velocità è a 30 km all’ora, è stato finora parecchio accidentato. Esaminato una prima volta dalla Commissione tra aprile e dicembre 2014, arrivato in Aula a giugno 2015, tornato in Commissione perché nel frattempo alcune norme (come l’omicidio stradale) erano state inserite in altri disegni di legge, oggi vede nuovamente la luce. E se sarà approvato potrebbe essere un piccolo passo in avanti, sicuramente meno incisivo della delega che avrebbe riscritto praticamente l’intero Codice e che langue in Senato da tre anni, e, caso strano, sempre a causa del parere contrario della Ragioneria generale dello Stato…

A PROPOSITO DI SALUTI ROMANI – Questa settimana la Commissione Giustizia della Camera ha definitivamente licenziato il testo della proposta a prima firma di Emanuele Fiano (Pd) che punisce con il carcere da due a sei anni chi “propaganda le immagini o i contenuti propri del partito fascista o del partito nazionalsocialista tedesco, ovvero delle relative ideologie, anche solo attraverso la produzione, distribuzione, diffusione o vendita di beni raffiguranti persone, immagini o simboli a essi chiaramente riferiti, ovvero ne richiama pubblicamente la simbologia o la gestualità”. Nell’ultimo numero di questa rubrica se n’era già parlato, e un gentile lettore aveva sottolineato come il saluto romano sia in realtà reato dalla caduta del fascismo. Piccola precisazione: il reato di apologia di fascismo è stato introdotto dalla legge Scelba del 1952 (quindi quasi 10 anni dopo la fine del regime) e richiede che a compierlo siano almeno 5 persone. Inoltre, alcuni giudici hanno interpretato la legge nel senso che vi debba essere la volontà di diffondere l’ideologia fascista, ultima la Corte d’appello di Milano che nel 2016 ha assolto due esponenti di Casa Pound sorpresi a fare il saluto romano in una manifestazione che però, secondo la sentenza, era solo commemorativa, tanto che i partecipanti avevano sfilato “in assoluto silenzio, con un atteggiamento di rispetto nella memoria delle vittime di violenza”, senza “innalzare cori inneggianti” o esprimere “propaganda e volontà di diffusione di un’ideologia” pur richiamando alcuni simboli del fascismo. Ecco il motivo della proposta di legge che l’Aula della Camera si appresta a votare la prossima settimana.

Quanto al resto della gentile critica del signor De Luca, è vero, la situazione è chiara: una legge che riconosce dei diritti sulla carta ma non stanzia fondi per renderli effettivi, come quella sulla lingua italiana dei segni, è una legge manifesto. Il fatto che da quando è stato inserito in Costituzione il principio del pareggio di bilancio tutti i disegni di legge debbano passare sotto le forche caudine della Ragioneria generale dello Stato è noto a tutti coloro che lavorano in Parlamento, dai giornalisti fino agli stessi deputati e senatori, che infatti spesso se ne lamentano. Poi, che i soldi si trovino per alcune cose, come le celebrazioni del bimillenario della morte di Ovidio, e non per altre, è solo una scelta politica. E almeno lì, i tecnici e i ragionieri non c’entrano nulla…

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