UN SECOLO DI ALZHEIMER/ Il nemico strisciante che uccide in modo silenzioso. Dove siamo e dove andremo ?

di PAOLO COCHI*/ Il morbo di Alzheimer è la forma più comune di demenza, un termine generico utilizzato per descrivere una condizione che porta alla perdita di memoria e di altre abilità cognitive. La malattia si manifesta in modo graduale, iniziando con sintomi lievi, ma con il passare degli anni peggiora fino a compromettere seriamente la capacità di una persona di svolgere le attività quotidiane. La sua incidenza è in fortissimo aumento, interessando non solo gli anziani, ma anche una percentuale crescente di persone giovani. Le difficoltà che affrontano i pazienti, così come i loro familiari, sono enormi, e l’incertezza riguardo al trattamento e alla gestione della malattia rende la situazione ancora più complessa quasi insostenibile.

Disorientamento temporale e spaziale: il paziente perde la capacità di riconoscere
l’ora del giorno, i luoghi e anche le persone a lui vicine.

● Perdita della memoria a lungo termine: la memoria si deteriora e il paziente
dimentica eventi significativi della sua vita.

● Cambiamenti di personalità e comportamento: il paziente può diventare irritabile,
sospettoso e mostrare segni di aggressività.

● Difficoltà nella comunicazione: con il peggiorare della malattia, il paziente ha difficoltà
a parlare, comprendere il linguaggio e mantenere una conversazione.

● Perdita della capacità di svolgere le attività quotidiane: il paziente diventa incapace di
eseguire compiti semplici come vestirsi, mangiare o camminare.

Un altro aspetto significativo del morbo di Alzheimer è il suo impatto sulle famiglie dei  pazienti. Le persone che si prendono cura dei malati, spesso familiari stretti, devono affrontare sfide enormi. Oltre a monitorare costantemente lo stato di salute del paziente e a fornire assistenza nelle attività quotidiane, devono anche offrire un supporto emotivo fondamentale. L’imprevedibilità dei sintomi, che peggiorano nel tempo, può causare
frustrazione, stress e isolamento sociale, influendo profondamente anche sulla qualità della vita dei familiari.
Questa realtà è direttamente legata ai cambiamenti patologici che avvengono nel cervello dei pazienti.

Il morbo di Alzheimer è causato da anomalie nelle proteine amiloide e tau, che interferiscono con la comunicazione tra le cellule nervose. Le placche di proteina amiloide sono depositi anomali di una proteina chiamata beta-amiloide, che si accumulano tra i neuroni nel cervello. La beta-amiloide è un frammento di una proteina più grande che normalmente si trova nel cervello, ma nel morbo di Alzheimer, questa si accumula e si
aggrega, formando placche che intralciano la comunicazione tra le cellule nervose. Questi depositi non solo ostacolano i segnali tra i neuroni, ma promuovono anche l’infiammazione nel cervello, un processo che danneggia ulteriormente i neuroni. I grovigli di tau, invece, sono filamenti di una proteina chiamata tau, che normalmente aiuta
a stabilizzare le strutture interne delle cellule nervose, contribuendo al trasporto di nutrienti e
altre sostanze.

Tuttavia, nel morbo di Alzheimer, la tau subisce alterazioni chimiche che la fanno aggregare e formare grovigli all’interno delle cellule. Questi grovigli compromettono il funzionamento delle cellule nervose, causandone il danneggiamento e la morte. Questo processo di degenerazione irreversibile cerebrale, causato sia dalle placche di amiloide che dai grovigli di tau, porta alla neurodegenerazione, che è alla base dei sintomi cognitivi e comportamentali della malattia.

Questo processo degenerativo porta a una progressiva neurodegenerazione, che è alla base dei sintomi cognitivi e comportamentali che tanto incidono nella vita quotidiana dei malati e dei loro cari. Sebbene questi depositi proteici siano presenti anche in cervelli di persone anziane senza Alzheimer, i pazienti affetti dalla malattia sviluppano una quantità molto maggiore di queste placche e grovigli, che si distribuiscono in modo prevedibile nel cervello, partendo dalle aree legate alla memoria per diffondersi progressivamente in altre zone.

Il danno cerebrale che ne risulta compromette in modo irreversibile la funzione cognitiva. Al momento, non esiste una cura definitiva per il morbo di Alzheimer, ma esistono trattamenti che possono rallentare temporaneamente la progressione della malattia e migliorare la qualità della vita dei pazienti. I farmaci attualmente in uso, come gli inibitori della colinesterasi e la memantina, sono utili per gestire i sintomi, ma non fermano la
malattia. Gli inibitori della colinesterasi agiscono aumentando la quantità di acetilcolina, un neurotrasmettitore che svolge un ruolo cruciale nella comunicazione tra i neuroni, in particolare nelle aree del cervello che sono coinvolte nella memoria e nell’apprendimento. Nel morbo di Alzheimer, la produzione di acetilcolina diminuisce, quindi l’aumento della sua disponibilità aiuta a migliorare temporaneamente le funzioni cognitive e la capacità di concentrazione, rallentando l’aggravarsi dei sintomi.

La memantina, invece, agisce regolando l’attività del glutammato, un altro neurotrasmettitore
che è coinvolto nei processi di apprendimento e memoria. Tuttavia, un’eccessiva attività del glutammato può danneggiare le cellule nervose, un fenomeno noto come “eccitotossicità”. Nel morbo di Alzheimer, l’eccesso di glutammato contribuisce alla morte delle cellule cerebrali, quindi la memantina aiuta a regolare questa attività, prevenendo il danno e migliorando la funzione cognitiva. Sebbene questi farmaci non possano fermare la
progressione della malattia, possono offrire un sollievo temporaneo migliorando alcune
funzioni cognitive e rallentando il declino.

Tuttavia, la ricerca è in pieno sviluppo e ci sono diversi trattamenti in fase di sperimentazione. Un grande passo avanti è stato fatto con l’approvazione del farmaco Lecanemab, un anticorpo monoclonale che rimuove le placche di amiloide dal cervello. Sebbene questo farmaco non possa curare la malattia, è stato dimostrato che rallenta il declino cognitivo nelle fasi iniziali. L’efficacia di Donanemab, un altro anticorpo monoclonale, è simile, e molti ricercatori stanno testando farmaci che agiscono anche sui grovigli di tau, oltre che sulle placche di amiloide.
Nuovi studi si stanno concentrando su approcci più mirati, tra cui il trattamento dell’infiammazione cerebrale e il miglioramento della comunicazione tra le cellule nervose.

Altre ricerche si concentrano sulla psilocibina, principio attivo dei cosiddetti “funghi allucinogeni”, che in microdosi controllate viene testata per stimolare la neuroplasticità e alleviare ansia e depressione legate al declino cognitivo. I risultati preliminari dei primi trial di fase I/II sono incoraggianti, ma serviranno studi più ampi per capire se possa davvero rallentare la progressione della malattia. In generale, si va verso una futura politerapia che combini più approcci, sul modello di quanto già avviene in oncologia. È possibile che in futuro il trattamento della malattia di Alzheimer sia una politerapia, che combinerà più farmaci per affrontare le diverse cause della neurodegenerazione

Nonostante i progressi, la ricerca di una cura definitiva è ancora in corso. Tuttavia, ogni passo avanti nella ricerca e ogni nuova scoperta scientifica rappresentano una speranza per i milioni di persone che ogni anno vengono diagnosticate con il morbo di Alzheimer, con l’avanzare della conoscenza scientifica, potrebbe essere possibile non solo curare la malattia, ma anche prevenirla o rallentarne l’insorgenza. Nel frattempo, è fondamentale che i pazienti e i familiari ricevano il supporto necessario. Non solo attraverso il trattamento medico, ma anche con l’aiuto di gruppi di supporto e risorse dedicate, che possano rendere più affrontabile la quasi impossibile sfida che il morbo di Alzheimer rappresenta.

*Documentarista e scrittore

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