di FEDERICO BETTA –
Arnold Wesker è stato uno dei protagonisti della drammaturgia inglese della seconda metà del novecento. Interessato ai conflitti umani e sociali, con una particolare attenzione all’universo femminile, ha scritto più di quaranta testi tra monologhi e grandi opere per decine di attori.
Tra questi ultimi, La cucina (The Kitchen), il suo primo testo scritto nel 1957, è in scena al Teatro Eliseo di Roma fino al 20 maggio, con la regia di Valerio Binasco e la produzione del Teatro Stabile di Genova. La versione italiana del testo è di Alessandra Serra, le importanti scene di Guido Fiorato, le musiche di Arturo Annecchino e i costumi di Sandra Cardini.
La cucina è un progetto corale, ambizioso, che coinvolge ventiquattro attori e attrici, tra i quali molti under 35. Tutti gli interpreti provengono dalla scuola del Teatro Stabile di Genova e dimostrano una capacità tecnica, un’intensità e un affiatamento degno di una compagnia stabile.
Mentre il teatro inglese si spostava verso il formalismo, Arnold Wesker ha mantenuto saldi i piedi nella propria esperienza e ha dato vita a un copione che a 50 anni di distanza ancora è in grado di raccontare con sincerità i retroscena della ristorazione.
Il testo narra una giornata di lavoro nella cucina di un grande ristorante di Londra. Dalla silenziosissima preparazione mattutina alla fine del turno serale, cuochi, sguatteri, aiuti, lavapiatti e cameriere si muovono tra tavolacci, coltelli e pentolame, immersi in un melting pot etnico e linguistico che fa esplodere ogni conflitto. Una cucina è un microcosmo di differenze, un concentrato di caratteri forti che si trovano a stretto contatto in un contesto altamente stressante. Per questo, nell’inferno dei fuochi e delle lame, non è raro che emergano le fragilità più intime, ma anche che ognuno trovi uno spazio di ascolto e fraternità. A chiudere la storia, infatti, i più irriducibili nemici si abbracciano in un gesto che si apre a tutti gli spettatori proiettando la necessaria ricerca d’amore di ognuno nell’applauso finale, in una sorta di rito collettivo.
La regia di Binasco ha scelto di giustapporre la verità del lavoro di cucina, i rapporti esplosivi tra i caratteri e la ferocia dei conflitti etnici e di classe, a una certa rarefazione dei movimenti e delle atmosfere. In tutta la rappresentazione il cibo è tagliato, nominato, spostato, regalato, ma non è presente, essendo solo immaginato. Così come ogni suono di pentole e coltelli non rimanda alla realtà, ma è attutito o solo alluso, in un continuo movimento che ha più il tono della danza che quello del lavoro. L’unica materialità è così data dai corpi e dalla fatica, dal vapore persistente, dai dolori e dalle ferite… come se la cucina non fosse un luogo concreto, ma davvero una grande metafora dell’esistenza.
È raro vedere nel teatro italiano allestimenti che coinvolgono 24 tra attori e attrici. E va fatto onore allo sforzo produttivo del teatro Stabile di Genova, che ha permesso al regista di creare un’opera che trova la sua forza nella coralità: i movimenti di gruppo, precisi al millimetro, dimostrano un’orchestrazione degna di una vera e propria coreografia musicale.
Il progetto ha sicuramente il merito di rieditare la visione ormai solo edulcorata del lavoro dietro le quinte della ristorazione. Come nel 1960, e molto probabilmente nel prossimo futuro, col suo sguardo preciso e sincero, La cucina è in grado di mostrare la ferocia meccanica dell’alienazione lavorativa evitando l’estetizzazione o la spettacolarizzazione cui troppo spesso siamo abituati da cinema e televisione.
Quello che però appare a volte un po’ stereotipata, è la modalità relazionale centrata principalmente sulla rabbia urlata e sulle relazioni di scontro diretto dei personaggi. Ci chiediamo se non sarebbe stato più accurato e coinvolgente portare in scena una working class che per ribellarsi o soccombere è in grado di esprimere tutta la complessità dell’animo umano.
Commenta per primo