di FEDERICO BETTA – Prorogato fino al 17 aprile, è ancora in scena al Teatro Argot Studio di Roma, Sistema Cechov: Zio Vanja per la regia di Filippo Gili. Dopo Il Gabbiano e Le tre sorelle, il prolifico regista procede nella sua indagine su Cechov (anche questo un progetto di Uffici Teatrali) cercando di approfondire il senso del tempo, delle aspirazioni e delle aspettative per il futuro.
La scena è spoglia, un tavolo con un servizio da tè, un divano, un armadio a vetrinetta. Gli spettatori sono disposti su due file, una di fronte all’altra, e vedono la scena nel mezzo, avendo la possibilità di guardarsi reciprocamente mentre l’azione scorre tra loro. I personaggi, le battute e i movimenti si rimpallano come fossero dipinti su un foglio che scorre in orizzontale e ci si ritrova, più che ad assistere, a inseguire la scena.
La scelta di Gili, che ritraduce Zio Vanja con una lingua contemporanea, è quella di eliminare dal testo tutta la leggerezza da un autore che lamentava alle messe in scena di Stanislavskij la lettura troppo tragica. È una cornice, forse forzata, ma precisa. Siamo in un Cechov crepuscolare, che calca i toni sulla disperazione di un mondo alla deriva, di abitudini che non hanno più la forza di rinsaldare i legami, ma affondano sempre più in egoismi, rimpianti, rancori e remissività. La struttura del testo, principalmente affidata al dottor Astrov (Alessandro Federico) e a Zio Vanja (un convincente Paolo Giovannucci) pone al centro di una possibile salvezza il desiderio d’amore che non ha spazio per fiorire, incastrato com’è tra convenzioni, non detti, speranze mal riposte.
In questa fissità, rimarcata dal tono notturno, dai pochi oggetti di scena e da quel divano centrale che quasi inghiotte i protagonisti, permane comunque un senso di squilibrio, di occasion possibile ad ogni momento, di possibile guizzo in un futuro luminoso. Gili mostra questa eventualità ma, seguendo Cechov, la distrugge ad ogni momento: c’è sempre qualcuno che si affaccia al momento sbagliato ricordandoci la disperante quotidianità di ciò che incomprensibilmente è sempre stato e sempre sarà.
Forse gli amanti di Cechov potranno rimanere delusi da questa essicazione del testo, che fa del tono mortifero l’unico di un racconto ben più complesso, e forse certe svolte improvvise, caricate di urla e spari, possono apparire fuori luogo, senza appigli nella rarefazione generale. Ma la recitazione ‘naturalistica’, senza toni stentorei o declamazioni, e la messa in scena ‘in minore’ hanno la forza di ridonare a un testo che ha più di un secolo la possibilità di parlare agli spettatori di oggi che, come detto, si trovano a seguire l’azione costretti a guardarsi in faccia.
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