STORIA DELLO SPORT/ “Essere campioni è un dettaglio”, storie dal XX Secolo fra sport e società: un libro di Paolo Bruschi

di SERGIO TRASATTI/ Nel 1981, i risultati della squadra brasiliana del Corinthians furono pessimi e indussero il nuovo presidente Waldemar Pires ad affidare l’incarico di condurre lo spogliatoio al sociologo Adilson Monteiro Alves, che non era un allenatore ma un sociologo noto per l’opposizione alla dittatura che governava il paese dal 1964. Alves si presentò alla squadra e invitò i giocatori a esprimere per la prima volta il loro pensiero. Questi chiesero la fine dei ritiri prepartita, vollero decidere il regime alimentare da seguire, quando partire per le trasferte e quando tornare, infine presero a stilare la formazione da spedire in campo. Veniva tutto deciso a “suffragio universale”, il parere del magazziniere contava come quello del capo-cannoniere. Come per miracolo, i giocatori ripresero fiducia, inanellarono vittorie su vittorie, le esauste finanze furono risanate e il Corinthians divenne un marchio popolare. Allora intervenne Sócrates, il capitano della Seleção e leader naturale del gruppo. Fu lui a trasformare la Democracia Corinthiana da vicenda sostanzialmente calcistica in un’occasione per reclamare il ritorno delle libertà politiche e civili. Il mantra che motivava i protagonisti di quella straordinaria esperienza, a mezza strada fra sport e politica, era “essere campioni è un dettaglio”.

È questo il senso del volume di Paolo Bruschi, edito da “Scatole parlanti”, che si muove sul frastagliato confine fra storia, società e sport, e in sei sezioni tenta una rapida illustrazione del Novecento attraverso il racconto di 18 vicende sportive svoltesi sullo sfondo dei principali eventi del secolo: dall’uso propagandistico dello sport da parte di Benito Mussolini o di Augusto Pinochet, all’impegno di Muhammad Ali nella lotta per l’emancipazione degli afro-americani o della tennista Billie Jean King nella battaglia per le pari opportunità fra uomini e donne, dalle gesta di Ondina Valla, prima azzurra a conquistare un oro olimpico ai Giochi di Berlino del 1936, allo status di ineguagliata icona popolare di Joe DiMaggio, nella cui traiettoria si legge in controluce il dramma dell’emigrazione italiana oltre-oceano, il libro ripercorre lo sviluppo del secolo dalla Prima guerra mondiale al crollo dell’Unione Sovietica, parlando di calcio, ciclismo, tennis, basket, pugilato, atletica e baseball.

Bruschi non intende certo esagerare l’influenza dello sport nella vita delle persone, ma soltanto affermare che lo sport è un fenomeno collettivo troppo importante per essere trascurato nello studio della storia. Detto altrimenti, se un miliardo di persone si ritrovano davanti alla televisione per guardare la finale dei Mondiali di calcio o assistere alle gare olimpiche, lo sport non può essere considerato soltanto un gioco. É illuminante, a tale proposito, il percorso di Arvydas Sabonis, il magnifico pivot lituano che condusse l’URSS alla vittoria ai Giochi di Seul del 1988, ma che non potè trasferirsi subito nella NBA per i contrasti della “Guerra fredda” fra Mosca e Washington, e quando infine vi arrivò, nel 1995, era ormai un giocatore stanco e logorato dai postumi di gravi infortuni, che i medici sovietici avevano trascurato proprio con l’obiettivo di sfruttare il talento di Sabonis per la maggior gloria dell’Unione Sovietica.

In conclusione, Bruschi sostiene che pochi ambiti al di fuori dello sport sono in grado di restituire con la stessa vivida efficacia lo spirito del tempo e il sentire collettivo delle persone comuni, perché assieme alle altre forme prevalenti della cultura “pop” (la musica, il cinema, la televisione, ecc.), durante il “secolo breve” lo sport guardato e praticato,  ha contribuito in maniera sempre più profonda a modellare il comportamento dei popoli e imposto agli osservatori e agli interpreti della realtà l’uso di strumenti analitici in grado di cogliere e valutare le dinamiche socio-culturali e non solo quelle storico-politiche. Una verità che si è manifestata assai precocemente, se si pensa che già alla vigilia e immediatamente dopo lo scoppio della Prima guerra mondiale, il governo britannico, che prima della coscrizione obbligatoria poteva contare su un esercito di soli 750.000 volontari (a fronte dei quasi due milioni di soldati schierati in partenza dall’esercito della Germania guglielmina), corse ai ripari con una martellante campagna di reclutamento che in larghissima parte sfruttava l’associazione valoriale fra sport e guerra, una connessione di moda fin dalla fine dell’Ottocento e praticata ancora oggi. In seguito a una pensata di Arthur Conan Doyle, il creatore di Sherlock Holmes, fu addirittura deciso di organizzare la promozione per l’arruolamento nell’intervallo delle partite del campionato di calcio.

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