Quale futuro per un’alleanza tra Pd e M5s dopo il voto del 20-21 settembre? Quattro considerazioni per una strategia

di ENNIO SIMEONE – “Non ero in bilico ieri, non sono inamovibile oggi“: con il consueto equilibrio Giuseppe Conte sintetizza così la sua posizione (e quella del suo governo) dopo la tornata elettorale del 20 e 21 settembre. Una tornata elettorale che ha fornito alcuni dati molto netti, così riassumibili:

1. Nelle Regioni e nei Comuni dove si è votato non solo non vi è stata la “spallata” della destra, ma, al contrario, vi è stato un netto consolidamento del Pd e quindi della più radicata delle due componenti della maggioranza.

2. Il consolidamento del Pd  non è stato incrinato dalla riconfermata debolezza dell’alleato, il M5s, nelle elezioni locali, anche perché questa debolezza è stata bilanciata dal risultato positivo del referendum sul taglio dei parlamentari (bandiera identitaria del Movimento), nel quale i SI’ hanno sfiorato il 70% dei consensi e, inoltre, la partecipazione ai seggi è stata molto più alta di quanto i timori dei contagi da covid facessero prevedere.

3. Inoltre il divario di consensi tra Pd e M5s non ha incrinato l’attuale coalizione di governo perché è risultato evidente che vi è stata una notevole portata di “voti disgiunti” (dove ciò era consentito dalla legge elettorale di quella regione), di elettori che hanno votato il simbolo del M5s e la preferenza al candidato presidente del Pd, nonché di voti “anti”, cioè quelli di elettori del M5s che hanno direttamente fatto convergere il loro voto sul candidato del Pd (come in particolare è accaduto in Toscana) nella consapevolezza che solo questo comportamento poteva impedire al candidato della destra di prevalere.

4. Molti commentatori, a sostegno della tesi che un’alleanza elettorale tra Pd e M5s non avrebbe avuto fortuna (e non potrà averne neanche in avvenire) hanno portato ad esempio l’unica regione dove è stato presentato un candidato unico da Pd e M5s, la Liguria, perchè il giornalista Ferruccio Sansa è stato sconfitto, fermandosi al 39% dei consensi.

Ma l’esempio della Liguria non è calzante per almeno 4 motivi: innanzitutto perché questa “alleanza” è stata raggiunta molto faticosamente quasi alla vigilia della scadenza per la presentazione delle liste; in secondo luogo perché realizzata in un contesto nazionale di diffidenza e di sfiducia oltre che di avversione di larga parte del Cinquestelle e anche del Pd; in terzo luogo perché, come si è visto anche nelle altre regioni, i presidenti in carica che si sono riproposti per la riconferma hanno ottenuto ovunque un consenso in alcuni casi insperato; e, infine, perché il giornalista “puro” Ferruccio Sansa, benché firma nota del “Fatto quotidiano”, non era probabilmente il più adatto nel ruolo di antagonista del giornalista Giovanni Toti, forte, a sua volta, di una esperienza da “governatore” e del ruolo avuto nella realizzazione-lampo del ponte di Genova.

Per queste ragioni, oltre a tante altre che si potrebbero aggiungere, ha ragione il presidente Conte nell’affermare di non essere stato in bilico alla vigilia di questa consultazione elettorale. Ma forse esagera nell’aggiungere di “non essere inamovibile oggi“: il consenso personale (anche per la sua capacità di mediazione)  e l’apprezzamento sul piano internazionale che è riuscito a conquistarsi e a conquistare al suo governo nell’affrontare l’emergenza coronavirus, contro l’arma spregiudicata della denigrazione usata dagli avversari politici e da una vasta platea di opinionisti e pseudoanalisti, cartacei e catodici, gli devono consigliare, anzi gli impongono, di dedicarsi, con le migliori energie a disposizione, a pianificare l’impiego del Recovery fund per opere che diano slancio allo sviluppo dell’occupazione.

 

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