PUNTO DI VISTA/ Renzi e “il partito suo”. Conte… stai sereno (per ora)

di STEFANO CLERICI – Quando ho cominciato ad avere il sospetto, per non dire la quasi certezza, che Matteo Renzi stesse per tagliare il suo sospirato traguardo, quello di fondare finalmente un partito tutto suo, ho provato a cercare tra i vecchi ma sempre efficaci detti della saggezza popolare quale fosse il più adatto per commentare l’evento. Dapprima, pensando alla sua incontrollabile voglia di abbattere la sinistra (è riuscito a far perdere al  Pd sei milioni di voti) e di sfasciare qualsiasi cosa non potesse controllare in prima persona, mi è venuto spontaneo il proverbio “il lupo perde il pelo ma non il vizio”. Ma poi, riflettendoci meglio, ne ho scelto un altro: “Al nemico che fugge, ponti d’oro”. Già, perché – se ne faccia una ragione l’onorevole Franceschini – il Pd (inteso come punto d’incontro delle culture socialista e cattolico-progressista) non è mai stata “casa sua”. Lo “spirito dell’Ulivo”, tanto caro ai Prodi e ai Veltroni, non lo ha mai sfiorato; e se mai l’ha fatto, lui l’ha scacciato con fastidio.

Per l’Attila fiorentino “casa sua” è sempre stata quella in cui può fare, appunto, l’indiscusso padrone di casa. Dove decide, lui e solo lui, chi può essere invitato, in che giorno e a che ora, e dove – soprattutto – non ci sono coinquilini (e se qualcuno prova a prendersi una stanza viene immediatamente sfrattato) e dove vigono le regole non del condominio ma del solo e unico proprietario. Per l’appunto, lui.

Ripassiamo  un po’ di storia: Matteo Renzi (con legittima investitura delle primarie) arriva nel “condominio” di largo del Nazareno nel dicembre del 2013. Neppure il tempo d’ambientarsi e decide che quelle stanzette del Nazareno gli vanno strette e che sarebbe meglio trasferirsi in un palazzo più grande, per esempio Palazzo Chigi. Detto fatto. Chiama il compagno di partito Enrico Letta, che abitava lì, e mentre gli dice di stare sereno, fa partire lo sfratto. Bene, si insedia a Palazzo Chigi e comincia (jobs act, buona scuola e compagnia smantellando) la sua opera demolitrice del Pd, che non sente come “roba sua”, pieno com’è di “occupanti” (per lui abusivi) legati alla vecchia “ditta” che quel partito aveva fondato. Solo che, oltre a demolire il Pd (con lo sfratto di Bersani e company) demolisce anche il suo elettorato, inanellando una serie di paurose sconfitte in elezioni amministrative, Ciliegina sulla torta, il referendum costituzionale del dicembre 2017. L’Attila fiorentino ci aveva giocato tutto, al punto di giurare che se avesse perso si sarebbe ritirato dalla scena politica. Venne sonoramente battuto. Lasciò Palazzo Chigi (a Gentiloni) ma restò, eccome, in scena. Tanto, c’erano sempre le stanze del Nazareno, meglio che niente. Così, ancora una volta, nelle primarie 2017, il “condominio” Pd riconsegnò le chiavi all’Attila fiorentino. Il calvario durò fino al 4 marzo del 2018, quando, sotto la segreteria Renzi, il Pd ha conosciuto la più devastante umiliazione elettorale: quell’uomo era stato capace di portare il partito dal mitico 40 per cento a neppure il 18 per cento.

Ora, capisco tutto: le scissioni sono sempre un male, la sinistra è malata di “tafazzismo”, uniti si vince…Ma ditemi voi, perché a uno così che se ne va non bisognerebbe fargli ponti d’oro?

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