OSSERVATORIO USA/America First o Trump First: verso un regime autoritario?

di DOMENICO MACERI*

“A cominciare da oggi sarà solo America First. America First“. La ripetizione di “America First” (prima di tutto l’America) durante il discorso di insediamento di Donald Trump è stata chiarissima per i sostenitori del nuovo inquilino alla Casa Bianca e suggerisce che l’amministrazione precedente non sia stata abbastanza patriottica nel difendere gli interessi americani. L’espressione però evoca l’ideologia fascistoide dell’America First Committee, fondato nel 1940 e sciolto il 10 dicembre 1941, tre giorni dopo l’attacco a Pearl Harbour.
Il Committee mirava a mantenere l’America fuori dalla Seconda Guerra Mondiale e in una delle sue petizioni chiese al Congresso di “non intervenire, anche se l’Inghilterra rischiava di perdere la guerra”. Si trattava non solo di pacifismo e appagamento delle miste di Hitler ma anche di antisemitismo. Charles Lindbergh, il famoso aviatore che compì la prima traversata dell’Oceano Atlantico in solitaria e senza scalo, divenne uno dei più famosi membri del Committee nonché noto rappresentante del gruppo. In uno dei suoi discorsi come rappresentante del gruppo Lindbergh disse che “le razze britanniche e ebree volevano coinvolgere la partecipazione alla guerra per ragioni tutt’altro che americane”.
I richiami fascistoidi di “America First” sono passati in gran parte inosservati, eccetto per coloro che ricordano benissimo gli antecedenti storici. È  possibile che Trump non faccia parte di questo gruppo, anche perché se spesso ci ricorda il suo “ottimo cervello” e la sua laurea della Wharton School of Business della University of Pennsylvania, una delle migliori università americane. Di certo pochi dei suoi sostenitori avranno colto i richiami storici dell’espressione “America first”, ma le parole e le azioni di Trump ci suggeriscono parallelismi con l’ideologia nazionalistica e isolazionistica dell’America First Committee.
Le affinità con idee che richiamano al fascismo assumono evidenza in modo particolare in alcuni dei più fidati collaboratori di Trump. Spicca fra questi lo stratega della sua campagna, Steve Bannon, ex direttore di Breitbart News, un sito internet di estrema destra che promuove ipotesi di complotti. Include anche una piattaforma per gruppi di estrema destra che sottoscrivono un’ideologia radicale di supremazia razziale e promuove freni all’immigrazione e al multiculturalismo. Non sorprende dunque che Bannon sia stato l’anima del recentissimo ordine esecutivo di Trump che prevede la chiusura  temporanea delle frontiere a quei paesi che sarebbero potenzialmente connessi al terrorismo. Il decreto anti-islam proibisce per almeno 90 giorni l’ingresso di rifugiati e migranti provenienti da paesi a prevalenza musulmana come Iran, Iraq, Libia, Somalia, Sudan, Siria e Yemen.
Trump considera questi paesi pericolosi per la sicurezza degli Stati Uniti, per cui il divieto dovrebbe renderci più sicuri. In realtà il neopresidente ha lasciato fuori alcuni altri paesi come l’Arabia Saudita, l’Egitto e la Turchia. Si sospetta che gli affari delle aziende di Trump in questi paesi lo abbiano spinto a non includerli nel divieto, specialmente considerando che la maggioranza degli individui responsabili per l’attacco alle Torri gemelle dell’11 settembre 2011 venivano dall’Egitto e dall’Arabia Saudita. La giudice federale Ann M. Donnelly ha bloccato l’ordine esecutivo, ma fino al momento di scrivere non è stato implementato completamente. Sally Yates, la procuratrice generale ad interim, si è opposta all’ordine considerandolo indifendibile dal punto di vista legale. Per il suo atto di indipendenza la Yates è stata subito licenziata da Trump. Il suo sostituto, Dana Boente, ha dichiarato che lui obbedirà all’ordine esecutivo, mettendo in dubbio l’indipendenza del procuratore generale, la cui guida deve essere la legge anche se in conflitto con le vedute del presidente.
I collaboratori di Trump hanno difeso l’ordine esecutivo senza però riuscire a tacitare i conflitti che si avvertono anche nella cerchia dei più fidati collaboratori di Trump. Le raffiche di ordini esecutivi che riflettono il nazionalismo e l’isolazionismo ci confermano che Bannon è il principale stratega e che la cui influenza continua a crescere. Ecco come si spiega l’ascesa di Bannon da capo della campagna elettorale a consigliere strategico e da qualche giorno a membro del Consiglio nazionale di sicurezza, il gruppetto ristrettissimo che include i Segretari di stato e di difesa per la sicurezza nazionale.
I richiami dell’ideologia di Trump al clima politico populista europeo fra le due guerre sono ovvi. La storia ci dice che la paura dominante nel periodo fra le due guerre mondiali condusse al fascismo e nazismo con il successivo tragico conflitto che coinvolse tutto il mondo. Trump non ricorderà questo clima ma quando ci dice che intende piazzare l’America First inganna non solo i suoi fedelissimi sostenitori ma il resto del Paese. Trump si interessa a Trump perché intrappolato nel suo profondo narcisismo. Ce lo ha confermato nel suo discorso al momento di ricevere la nomination del suo partito quando ci disse che solo lui può risolvere i problemi che assillano il Paese. Ce lo ha confermato anche nella recente conferenza stampa in occasione del suo incontro con il primo ministro britannico Theresa May. Rispondendo ad una domanda di un giornalista sui futuri rapporti politici fra America e Russia, Trump ha detto che Putin è “intelligente” e spera che con lui ci sarà “un rapporto fantastico”.

Trump riconduce tutto a sé stesso e ai suoi rapporti personali. America first? Trump, sempre Trump first, sempre verso un regime in cui solo lui comanda. Ce lo conferma anche l’agenzia di stampa Reuters, la quale ha ordinato ai suoi giornalisti di trattare Trump come se fosse un regime autoritario al livello di Egitto, Yemen e Cina.
*Domenico Maceri è docente di lingue all’Allan Hancock College, Santa Maria, California  (dmaceri@gmail.com)

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