di DOMENICO MACERI* – Subito dopo l’elezione presidenziale Donald Trump aveva dato piccoli segnali che la sua aspra retorica della campagna elettorale fosse finita. Evidentemente non era vero. Il suo recente incontro con i membri dei media, off the record, cioè informale, doveva essere un nuovo inizio dei suoi rapporti con la stampa. Non c’erano telecamere ma alcuni dei presenti hanno descritto l’accaduto e si è potuto capire che invece di una tregua fra Trump e i media si è trattato di una resa dei conti. “Siete falsi e bugiardi” ha tuonato Trump additando in particolare Jeff Zucker, leader della Cnn e l’anchorman Wolf Blitzer, affermando che odia la loro rete e che “dovrebbero vergognarsi”. Non ha risparmiato nemmeno altre reti come la Nbc e Martha Raddatz, una delle anchorwomen, accusandola di avere pianto per la sconfitta di Hillary Clinton.
In un altro incontro con il New York Times si è visto un Trump diverso, nonostante le sue minacce di fare causa al giornale per la copertura “ingiusta” nei suoi riguardi durante la campagna. In alcuni dei suoi tweet il neoeletto presidente aveva anche accusato il giornale di essere sull’orlo del fallimento ricevendo una risposta del giornale che sottolineava invece i forti aumenti degli abbonamenti. Il colloquio con l’editore del New York Times e i giornalisti più noti fra columnist e cronisti però è stato caratterizzato scambi di idee positivi. Thomas Friedman, uno dei columnist, ha riportato in un articolo il tono moderato di Trump su diversi temi. Il neoeletto presidente ha dichiarato che assolverà Hillary perché “ha sofferto abbastanza”, ha fatto passi indietro sul riscaldamento globale e sull’uso della tortura mediante il waterboarding, e adesso persino dichiara ammirazione per Barack Obama.
Friedman è uscito incoraggiato dall’ora passata in compagnia di Trump. Un altro columnist che non si è presentato all’incontro, Charles Blow, ha avuto invece parole molto dure. Blow non ha perdonato i danni fatti da Trump al Paese con la sua campagna elettorale, accusandolo di essere un demagogo che ha “sfruttato le ostilità razziali, etniche e religiose” per i suoi fini politici. Trattare Trump con decoro lo riempie di “disgusto” ed è per questo che Blow ha affermato il suo orgoglio di non essersi seduto al tavolo con il neoeletto presidente vedendolo come uno che “si preoccupa solo di se stesso con lealtà solo per la propria esaltazione, schiavo della sua cupidigia”.
Una cupidigia che mescola gli affari e la politica impedendo a Trump di vedere gli ovvi conflitti.
Il neoeletto presidente ha spiegato ai rappresentanti del New York Times che potrebbe “governare il Paese e le sue aziende” allo stesso tempo, sostenendo, come aveva fatto Richard Nixon, che “le azioni del presidente sono legali in sé”. Trump dimentica ovviamente la “Emoluments Clause” della costituzione che proibisce al presidente di ottenere qualunque cosa di valore da governi stranieri senza l’approvazione del Congresso.
Come ha fatto spesso nella campagna elettorale, Trump cambia opinione a seconda di chi gli parla e secondo il momento. Friedman lo ha dimenticato. Blow invece no. Si ricorda che in passato aveva detto che se eletto presidente avrebbe abbandonato le sue aziende creando un “blind trust” gestito dai suoi tre figli Don, Ivanka e Eric. L’ultimissima dichiarazione lascia intendere che prenderà questa strada. Forse. Commentando il lavoro svolto dal New York Times, il neoeletto presidente ha detto di leggere il giornale ma che “potrebbe vivere venti anni in più” se smettesse di farlo. Però poi ha continuato esprimendo “grandissimo rispetto” per il giornale, etichettandolo come “grande gioiello americano” e manifestando la speranza di “potere andare d’accordo”.
La stampa cartacea e quella mediatica non sono riuscite a coprire Trump in modo efficace per la sua consistenza di essere inconsistente. Durante la campagna il gruppo di fact-checking PolitiFact ci aveva detto che l’ottanta per cento delle asserzioni di Trump consistono in falsità. Il New York Times e forse meglio il Washington Post hanno rilevato queste falsità senza però incidere sufficientemente sull’esito dell’Electoral College (Trump 306, Clinton 232), nonostante che il voto popolare abbia attribuito a Hillary Clinton 2 milioni e mezzo di suffragi in più di Trump.
Viviamo in un mondo di “post-verità“, slogan dell’anno dell’Oxford Dictionary. Vuol dire che i fatti oggettivi sono meno influenti degli appelli e delle credenze personali, ciò che il comico Steven Colbert chiamava “truthiness”, ossia la verità che uno sente anche se non corrisponde alla realtà. Queste “verità” vengono diffuse dai social media come Facebook e Twitter divenuti strumenti che spesso costruiscono una nuova narrativa. Queste due aziende si sono rese conto che le loro piattaforme rappresentano una seria minaccia per la democrazia ed hanno cominciato ad eliminare account sospetti che includono informazioni false ed offensive. Non basta. La miglior difesa per mantenere la democrazia sta negli elettori informati. In questo senso la miglior cosa da fare è abbonarsi a giornali e riviste e leggerli invece di fare click sui social media.
*Domenico Maceri è docente di lingue all’Allan Hancock College, Santa Maria, California (dmaceri@gmail.com)
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