OSSERVATORIO AMERICANO/ Politica e linguaggio: troppo inglese in italiano?

di DOMENICO MACERI* – Alcuni mesi prima delle elezioni italiane del 4 marzo 2018, Luigi Di Maio rinunciò a un confronto televisivo con Matteo Renzi dicendo che dopo i risultati delle elezioni in Sicilia il segretario del Partito Democratico non sarebbe stato più il suo “competitor”.  I sondaggi favorivano Di Maio e quindi si rese conto che un dibattito avrebbe fornito vantaggi a Renzi. Pochi giorni dopo il rifiuto, Di Maio usò lo stesso argomento per riferirsi all’astensionismo al voto come “l’unico competitor”.

In inglese “competitor” si usa per concorrenza, specialmente di tipo aziendale. In politica si usa il termine “opponent”. Si sbaglia dunque quando si usa “competitor” in italiano in queste circostanze? In un certo senso sì, non solo perché riflette poca conoscenza dell’inglese ma specialmente perché l’italiano già possiede l’ottima alternativa di “avversario” che fa al caso.

Di Maio non differisce da altri politici italiani nello “spruzzare” il suo linguaggio con espressioni inglesi. Si ricorda ovviamente il “Jobs Act” di Renzi, la “stepchild adoption” (l’adozione di figli minori di un partner) come pure “spending review”, “welfare”, “coming out”,  “foreign fighters”, “low cost”, “spread”, eccetera. E ovviamente, il centrodestra nella recente campagna elettorale ha fatto di “flat tax” il suo cavallo di battaglia. Usare un’espressione inglese sembra dare l’impressione di aggiungere una certa rispettabilità o freschezza, suggerendo che la lingua italiana sia poco efficace o povera.

In realtà i termini inglesi spesso oscurano il significato, confondendo i cittadini, creando un linguaggio nebuloso anche se potenzialmente piacevole e a volte anche misteriosamente attraente. È vero? Andare a un “party” è più divertente che “a una festa”?  “Team” e “fake news” invece di “squadra” e “bufale, falsità, o balle” comunicano meglio?

Tutte le lingue fanno uso di prestiti linguistici per buonissime ragioni, specialmente quando si tratta di nuovi concetti o nuove realtà create da una lingua e cultura potente come lo è ai giorni nostri l’inglese. Logico dunque che in italiano si dica “web” invece  di “rete” poiché l’originale inglese si riferisce a una nuova realtà. L’uso di “endorsement” per dire “sostegno o appoggio politico” si potrebbe accettare perché più evocativo, riflettente anche una realtà più amplia di concordanza politica.

Scrivendo di politica americana si può facilmente accettare il termine “speaker” per riferirsi all’incarico di presidente della Camera attualmente occupato da Paul Ryan. I sistemi politici sono diversi e l’uso di “speaker” si applica al ruolo specifico della Camera americana. Si potrebbe anche accettare “corner” invece di “calcio d’angolo” perché più economico specialmente nel linguaggio frettoloso di un commentatore televisivo o radiofonico.

La frettolosità però spesso impoverisce la lingua italiana storpiando vocaboli già esistenti  e indebolendoli senza cogliere la completa realtà. Quando il presidente americano Donald Trump chiese “loyalty” a Jim Comey, direttore della Fbi, la maggior parte dei cronisti italiani lo tradussero con “lealtà” invece del termine più appropriato è “fedeltà”.

In tempi passati il dominio culturale della nostra lingua ha contribuito a notevoli prestiti ad altre lingue europee. Basta solo pensare al campo della musica e dell’arte dove per molte lingue sarebbe difficile comunicare senza i termini italiani. Basta ricordare che non pochi compositori stranieri come Handel, Gluck e Mozart scrissero opere liriche in italiano perché il mondo dell’opera era dominato dalla nostra lingua per ragioni artistiche ma anche commerciali. Il pubblico si aspettava opere liriche solo in italiano, ma ovviamente, poco a poco, si scrissero opere in altre lingue senza però togliere il prestigio e l’influenza della nostra lingua nel mondo dell’opera.

Negli ultimi decenni, però, la lingua inglese è divenuta la lingua franca mondiale in molti campi considerando il potere economico, politico, e sociale del mondo anglosassone. In alcune università italiane, come il Politecnico di Milano,  si sta parlando seriamente di insegnare alcuni corsi di lauree magistrali e dottorati completamente in inglese.

Questo strapotere della lingua inglese e l’incremento di termini inglesi che arricchiscono il vocabolario italiano ma anche quello di altre lingue ha già causato non poche preoccupazioni anche se la grammatica non viene influenzata.

L’uso di parole straniere a volte è necessario ma sembra che di questi giorni si esageri. I leader politici dovrebbero essere in prima fila a difendere la lingua italiana invece di cadere nella tentazione di “competitor”, “jobs act” e “flat tax” nel loro sforzo disperato di racimolare alcuni voti extra. La lingua italiana è bella ed espressiva e l’uso di termini stranieri solo per apparire chic la abbruttisce.

Non si vuol suggerire una crociata sciovinista contro i termini stranieri ma un po’ di misura sarebbe utile. I prestiti linguistici sono accettabili solo quando ampliano il vocabolario già esistente invece di rimpiazzare termini già consacrati nella nostra lingua. I politici italiani che tanto dicono di preoccuparsi dell’Italia dovrebbero anche includere la nostra bella lingua. Tutti quelli che usano la lingua come strumento di lavoro dovrebbero anche astenersi dalle facili cadute in anglicismi non necessari.

Alla fine però la lingua italiana è resiliente e non corre nessun pericolo di essere sopraffatta e annientata dai prestiti linguistici che poco a poco vengono plasmati assumendo “cittadinanza” italiana senza però alcun impatto nella grammatica italiana.

*Domenio Maceri è professore emerito all’Allan Hancock College, Santa Maria, California  (dmaceri@gmail.com).

Commenta per primo

Lascia un commento