OSSERVATORIO AMERICANO/ L’elezione di Trump ricalca le divisioni fra red e blue states

Domenico Maceridi DOMENICO MACERI* – 

Donald Trump è la persona dell’anno, secondo Time Magazine, titolo concesso all’individuo che nel bene o nel male ha avuto un impatto notevole sul mondo. La rivista ha però  smorzato l’onore che il presidente neoeletto crederà di essersi conquistato aggiungendo il sottotitolo di “presidente degli Stati divisi d’America”.

Anche prima dell’entrata in scena in politica del magnate di New York gli Stati Uniti erano già divisi in red e blue. L’elezione presidenziale in America è sempre decisa da una decina di Stati il cui colore non è fisso, i cosiddetti swing states, Stati in bilico che a volte si colorano di blue e in altri  casi di red. Al di là del colore però c’è una grande differenza ideologica fra questi Stati che spaccano il Paese.
I blue states sono concentrati sulla costa pacifica (California, Oregon e Washington) e sulla costa atlantica del nordest. Qualche altro Stato a nord col confine in Canada e qualche altro nell’ovest del Paese completano il quadro blu. Per il resto, guardando una mappa del Paese, si vede una grande parte del territorio del paese colorato di rosso.
I colori ci dicono molte cose dal punto di vista ideologico, economico ed anche sociale. I blue States dominano per quanto riguarda i salari (salario medio di 62 mila dollari annui rispetto a 52 mila) secondo uno studio. Questo stesso studio ci dice anche che i blue states spendono 13.400 dollari annui per ogni studente rispetto a 10.200 per i red states. L’altra grande differenza consiste nelle università all’avanguardia che sono concentrate nei blue states  del nordest del Paese e la costa pacifica, specialmente la California. Questi investimenti sugli istituti di studi superiori ci vengono anche confermati dal numero di laureati (34 per cento per i blue states comparati  a 26 per cento per i red states). Inoltre anche il numero di brevetti favorisce  i blue states (fra il 2005 e il 2015, 4.603 vs. 1867).
L’economia dei blue states sembra essere più energica, senza però potere concludere che lo standard di vita sia migliore di quello dei red states. I costi per le case, uno dei tradizionali sogni americani, sono più bassi nei red states specialmente paragonati ad alcune zone costosissime dei blue states come San Francisco e New York. Chi è più ricco dunque dipende non solo dal salario ma dal potere di acquisto dei soldi guadagnati.
Dal punto di vista sociale i red states sono conservatori con una filosofia che guarda al passato, riflesso nei programmi televisivi degli anni cinquanta in cui il padre andava a lavorare e la madre restava a casa a gestire la famiglia. I blue states ci offrono invece un quadro che guarda al futuro in cui le famiglie tradizionali esistono ma vedono anche accettabili e normali le famiglie poco tradizionali. Per non parlare poi dei diritti dei gay e dei gruppi minoritari, che i blue states vedono con occhi benevoli mentre i red states vorrebbero fare tornare l’orologio indietro di decine di anni.
I rapporti con il governo federale riflettono anche chi controlla Washington. Negli otto anni della presidenza di Barack Obama leggi federali sono state sfidate dai red states come si è visto con i matrimoni gay e i diritti dei giovani dreamers, i figli di immigrati irregolari portati dai genitori in America da bambini.
I blue states reagiscono anche loro  con diffidenza quando i repubblicani controllano il governo federale. Il salario minimo, per esempio,  bloccato a 7,25 dollari l’ora dal 2009, è stato aumentato dalla maggioranza dei blue states mentre i red states non si sono mossi ed in alcuni di essi vige persino un salario inferiore a quello federale  per i lavoratori che ricevono mance.
I red states però ricevono più soldi dal governo federale. La South Carolina, classico red state, riceve quasi 8 dollari da Washington per ogni dollaro pagato per tasse federali. Altri red states con alti tassi di povertà ricevono ingenti fondi dal governo federale, che li assiste   mediante  welfare e social cards per permettere ai loro cittadini meno abbienti un minimo di supporto. È singolare dunque che questi red states votino per i candidati repubblicani che persistono nel limitare il potere del governo federale anche se loro ricevono una buona fetta delle tasse nazionali.
Trump è stato eletto presidente con meno di ottanta mila voti distribuiti fra pochissimi stati in bilico ma basandosi anche sugli affidabili red states. La maggioranza degli americani ha però scelto Hillary Clinton che ha ricevuto 2,8 milioni di voti più di Trump. Questi elettori ci indicano che i blue states rappresentano la maggioranza della popolazione americana. Il Paese però rimane diviso. Trump ha riconosciuto questa divisione senza ammettere alcuna responsabilità. Infatti il neoeletto presidente ha contribuito alla divisione e non ha fatto nulla per l’unificazione. Le nomine per il suo gabinetto ce lo confermano, come vedremo in un prossimo articolo.

*Domenico Maceri docente di lingue all’Allan Hancock College, Santa Maria, California  (dmaceri@gmail.com)

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