di DOMENICO MACERI* – Negli ultimi nove anni l’economia americana ha creato 2 milioni di posti di lavoro annualmente. Tre di questi durante il mandato di Donald Trump e gli altri sei sotto la guida di Barack Obama. A sentire le parole di Trump però nel suo discorso al Congresso sullo Stato dell’Unione tutto funziona a meraviglia per merito suo. Per le tante falsità e per avere creato un’atmosfera di rally elettorale nell’aula del Congresso, la speaker Nancy Pelosi ha strappato il discorso di Trump alla vista di tutti.
Ciononostante Trump non ha tutti i torti. L’economia sta andando bene, almeno sotto certi punti di vista che potrebbero fare la differenza per la sua rielezione nel mese di novembre di quest’anno. Gli americani votano con la pancia e se hanno la convinzione che le cose vanno bene dal punto di vista economico preferiscono non cambiare rotta a prescindere da altre questioni fondamentali. Come va ricordato, nella campagna elettorale del 1992, James Carville, il consigliere di Bill Clinton coniò lo slogan “It’s the economy, stupid”, concentrandosi sull’economia, sconfiggendo alla fine George H. Bush, il cui tasso di approvazione raggiungeva il 90 per cento. Se l’economia continua a tenere duro, Trump potrebbe fare una passeggiata verso la rielezione.
La disoccupazione attuale del 3,7 percento si trova ai minimi storici ma era già cominciata a scendere con Obama. Quando il primo presidente afro-americano entrò alla Casa Bianca ereditò un’economia disastrosa da George W. Bush, la peggiore della storia, eccetto per la Great Depression (Grande depressione) del 1929. La cosiddetta Great Recession (Grande recessione), causata dai mutui subprime e mercati immobiliari, durò dal 2007 al 2013. La disoccupazione si aggirava sul 10 percento ma alla fine del secondo mandato di Obama era già scesa al 4,7 percento. Con Trump è scesa di un punto ma prendersi il credito del “miracolo” economico riflette il modus operandi dell’attuale inquilino della Casa Bianca. Quando le cose vanno storte addita sempre ad altri; quando le cose vanno bene è tutto merito suo.
Non è vero ovviamente, ma sotto certi aspetti l’economia continua a mandare segnali positivi. Nel mese di gennaio 225.000 posti di lavoro sono stati creati. I salari continuano ad aumentare come si vedeva già nel primo mandato di Obama. Nel 2018 il salario medio lordo di una famiglia americana si aggirava sui 63mila dollari, solo 3,6 percento più alto del 2012 quando il Paese continuava a soffrire per la crisi economica del tempo. Il tasso di povertà continua a scendere ma di nuovo si tratta di un cambiamento iniziato con Obama. L’11,8 per cento degli americani continua a essere classificato in povertà (salario di 25.000 dollari per una famiglia di quattro persone), meglio del 15,1 percento del 2010 durante la crisi della Great Recession, ma quasi identico al 2001 (11,7 percento).
Se l’occupazione indica una situazione positiva per quanto riguardano le cifre, la qualità di questi nuovi posti di lavoro è bassa. La stragrande maggioranza dei nuovi posti pagano poco e spesso includono pochi benefici. I posti di lavoro con salari decenti per la classe media sono pochissimi. Il messaggio generale però è che l’economia va bene, come ci ricordano i media. Secondo un sondaggio dell’agenzia Gallup il 59 percento degli americani dice di stare meglio dell’anno scorso. La borsa continua a volare aggiungendo all’impressione che tutto va bene dal punto di vista finanziario anche se questi numeri toccano poco o nulla l’americano medio.
In realtà la stragrande maggioranza dei benefici economici stanno andando alle classi abbienti. Ce lo dice anche la riforma fiscale di Trump che ha ridotto le tasse, come fanno tipicamente i presidenti repubblicani per favorire gli ultraricchi e le corporation. La scusa è sempre la stessa: tagliando le tasse si stimola l’economia. Difatti, questi soldi extra nelle tasse dei ricchi non vanno spesi ma usati dalle corporation per comprare azioni delle loro stesse compagnie, aggiungendo valore al patrimonio collettivo della classe alta.
Gli indicatori economici sono dunque di dubbia veridicità come ci confermano anche altri segnali della qualità della vita degli americani. Un buon metro della salute di un popolo emerge dalla prosperità ma anche dalla felicità riflessa nella qualità e durata della vita. L’aspettativa di vita in America è scesa in due anni di presidenza di Trump. Ciò si deve probabilmente all’incremento di americani senza assicurazione medica che è aumentato dal 10,9 al 13,7 per cento. Per tutto il rumore della “meravigliosa” economia declamata da Trump i repubblicani hanno fatto di tutto per eliminare Obamacare senza però riuscirvi. Ciononostante sono riusciti a erodere l’efficacia della riforma sulla sanità approvata da Obama nel 2012.
I media però continuano ad esaltare lo stato positivo dell’economia nonostante le nubi presenti causate da Trump. La sua guerra di dazi con la Cina e l’Europa non promette bene poiché lo stato dell’economia americana, come tutte le altre, dipende in modo considerevole da quella del resto del mondo. La politica dell’America First di Trump non prende in considerazione questo fattore basico. Nessun Paese al mondo, nemmeno uno potente come gli Stati Uniti, può permettersi il lusso di isolarsi senza soffrire ovvie conseguenze negative. Gli Stati Uniti sono infatti legati al resto del mondo poiché continuano a indebitarsi di 500 miliardi di dollari annui per coprire le spese causate in buona parte dai tagli fiscali di Trump. Il deficit di scambi economici degli Stati Uniti per il 2018 è storicamente il più grande. C’è poi da considerare il deficit del bilancio americano, che era sceso con Obama ma è aumentato con Trump.
La vittoria all’elezione di novembre non è scontata per Trump nonostante la semplicistica visione di una buona economia. Troppe incognite fino ad ora e molte cose possono succedere nei prossimi mesi anche se quasi tutti i maggiori candidati democratici lo sconfiggono in scontri diretti secondo i sondaggi. Sappiamo però che i sondaggi spesso sbagliano (o possono essere sovvertiti dal particolare sistema elettorale americano suddiviso per Stati e la selezione, non proporzionale su scala nazionale, per “grandi elettori”) come si è visto nel 2016, quando davano a Trump scarsissime possibilità di vittoria.
*Domenico Maceri, PhD, è professore emerito all’Allan Hancock College, Santa Maria, California (dmaceri@gmail.com).
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