OSSERVATORIO AMERICANO/ Il memo di Nunes e la sfida di Trump al Fbi

di DOMENICO MACERI* – “Quando uno attacca gli agenti del Fbi perché è sotto indagine criminale, sta perdendo”. Così Sarah Huckabee Sanders nel mese di novembre del 2016 pochi giorni prima dell’elezione presidenziale.  Sanders, l’attuale portavoce della Casa Bianca, era allora consigliera di Trump per le comunicazioni e con le sue parole mirava a colpire Hillary Clinton la quale aveva tutte le ragioni per dissentire dal Fbi. Si ricorda che due settimane prima dell’elezione il Fbi aveva riaperto l’inchiesta sulle e-mail e subito dopo aveva annunciato che nulla di nuovo era stato riscontrato per rinviare a giudizio la candidata democratica. Il danno politico però era stato fatto dato che riaprì la ferita politica della Clinton ricordando agli elettori i dubbi sulla condotta della candidata democratica.

Attaccare il Fbi adesso per Trump è però completamente lecito. La nuova scusa è stata offerta all’attuale inquilino della Casa Bianca dal memo diffuso da Devin Nunes, presidente della  Commissione intelligence alla Camera. Le quattro pagine del memo suggeriscono che la Fbi ha agito in modo parziale per favorire i democratici aprendo l’inchiesta sul Russiagate. Trump aveva la scelta di declassificare il memo o mantenerlo segreto ma ha deciso di permettere la diffusione.
Il 45esimo presidente ha reagito dichiarando che il memo lo scagiona completamente dall’inchiesta perché, secondo lui, basata sul dossier di Christopher Steele, che era stato pagato in parte dai democratici per le ricerche su Trump. L’inquilino della Casa Bianca ha usato il memo per dimostrare, secondo lui, che la “leadership del Fbi e gli investigatori del Dipartimento di Giustizia hanno politicizzato le procedure” per favorire i democratici a scapito dei repubblicani.

La diffusione del memo è stata opposta dai membri del Partito Democratico nella Commissione presieduta da Nunes ma anche dal direttore del Fbi, Christopher Wray, come pure da Rod Rosenstein, vice procuratore generale. I democratici  volevano bloccare il memo perché non rifletteva obiettivamente le informazioni ricevute ma si concentrava su parti favorevoli ai repubblicani. L’opposizione di Wray e Rosenstein si doveva a possibili ripercussioni perché rivelava metodi di investigazione usati da Fbi e Cia. Trump però ha deciso per la diffusione.

I contenuti del memo però non si sono rivelati veridici sullo scagionamento di Trump perché l’inchiesta del Russiagate era stata già cominciata dal Fbi con individui legati alla campagna di Trump prima della pubblicazione del dossier di Steele. Ciononostante la diffusione del memo ha dato un pugno nell’occhio al Fbi. L’Fbi Agents Association ha reagito con un annuncio difendendo gli agenti che  “non saranno mai distratti da considerazioni politiche” nello svolgimento del loro lavoro. Ad accentuare la polemica del memo va aggiunto il fatto che la replica della minoranza democratica non è stata  inizialmente approvata dalla Commissione intelligence per diffusione. Non si sa se Trump darà l’OK finale per la diffusione.

In effetti, con la diffusione del memo, i repubblicani hanno cercato di infangare la reputazione del Fbi e del Dipartimento di giustizia. È paradossale che i vertici di queste agenzie siano individui nominati da Trump. Il 45esimo presidente però non è avverso ad attaccare anche i suoi subordinati pubblicamente. Lo ha fatto con Jeff Sessions che lui stesso ha nominato procuratore generale rimproverandolo pubblicamente per essersi ricusato dal Russiagate. Lo ha fatto anche con il vice procuratore generale, Rod Rosenstein, anche lui nominato dal 45esimo presidente. Rosenstein ha nominato Robert Mueller procuratore speciale per investigare sull’interferenza russa nelle elezioni americane del 2016 deludendo ovviamente l’attuale presidente.

Trump ha spesso diretto i suoi tweet velenosi non solo contro individui ai vertici del dipartimento di giustizia ma anche a tutto il Fbi facendolo “a pezzi” nel mese di dicembre del 2017. In effetti, Trump è rimasto insoddisfatto dei suoi nominati perché non gli obbediscono credendo di essere padroni del Dipartimento di giustizia. In un’intervista ha persino dichiarato che da presidente ha “l’assoluto diritto” di fare quello che vuole con il “suo” Dipartimento di giustizia.

Gli attacchi di Trump al Fbi hanno suscitato l’idea che lui abbia intenzione di licenziare i vertici dell’agenzia che stanno cooperando e sostenendo le indagini di Robert Mueller sul Russiagate. Il New York Times, infatti, ha persino annunciato che il 45esimo presidente aveva considerato seriamente di licenziare Mueller nel mese di giugno del 2017  ma non lo ha fatto per le proteste  di Donald McGahn, legale della Casa Bianca, il quale avrebbe   persino minacciato di dimettersi.

Ma gli attacchi al Fbi e al Dipartimento di giustizia continuano a creare dubbi tra gli americani sulla credibilità delle istituzioni. Un sondaggio dell’agenzia Axios ci dice che solo il 38 per cento dell’elettorato repubblicano ha una visione favorevole del Federal Bureau of investigation mentre quella dei democratici raggiunge il 64 per cento. Gli attacchi di Trump inoltre cercano di far passare l’idea che l’inchiesta del Russiagate abbia poco a che fare con le leggi e molto più con la politica.

Va ricordato che da presidente Trump può essere giudicato dalla legislatura mediante l’impeachment, che  potrebbe avvenire con l’inchiesta di Mueller. Ciononostante la maggioranza repubblicana nelle due Camere non rappresenterebbe un pericolo per il 45esimo presidente. Il problema per Trump però è che attaccare l’Fbi  non è una buon’idea. Richard Nixon ne ha subito le conseguenze. L’inchiesta del Watergate venne a galla principalmente a causa delle informazioni fornite a Bob Woodward e Carl Bernstein,  giornalisti del Washington Post, dalla gola profonda. Si seppe nel 2005 che la gola profonda era Mark Felt, vice direttore del Fbi fra il  1972 e il 1973.

*Domenico Maceri è  docente di lingue all’Allan Hancock College, Santa Maria, California  (dmaceri@gmail.com)

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