OSSERVATORIO AMERICANO/ Biden da luci iniziali a ombre attuali

di DOMENICO MACERI*I sondaggi riflettono un calo nell’indice di gradimento del presidente americano Joe Biden. Sono ancora migliori di quelli di Donald Trump a questo punto nelle loro rispettive presidenze (Biden 42, Trump 38 per cento) ma ovviamente l’attuale residente della Casa Bianca non naviga in acque tranquille.

Ross Douthat, editorialista conservatore del New York Times, ha recentemente riconosciuto la situazione di Biden asserendo in un recente articolo che la sfortuna, le scelte poco intelligenti e “un’inerente debolezza” ce lo spiegano.

Eugene Robinson, editorialista liberal del Washington Post, la vede diversamente. Robinson, già vincitore del prestigioso Pulitzer Prize per il giornalismo, dà credito a Biden per avere compiuto ciò che altri presidenti volevano fare ma non vi riuscirono. Il ritiro delle truppe dall’Afghanistan, già considerato da Barack Obama ai tempi quando Biden era suo vice, è visto da Robinson come ottimo risultato dell’attuale inquilino alla Casa Bianca. Inoltre Robinson loda anche il piano di Biden di spostare il baricentro della politica estera americana dall’Europa all’Asia. Ce lo conferma l’accordo Aukus con l’Australia e la Gran Bretagna per mandare un forte segnale alla Cina.

Entrambi gli editorialisti hanno le loro ragioni ma sta di fatto che la luna di miele del nuovo presidente sembra essere finita. Dopo quattro anni della politica erratica di Trump, Biden aveva annunciato che “America is back” (L’America è tornata), cioè gli Stati Uniti sono di nuovo presenti con una politica di stabilità e credibilità. Finita dunque la campagna del Washington Post, che quasi ogni giorno catalogava tutte le menzogne e asserzioni fuorvianti di Trump.

In quattro anni di mandato l’ex presidente aveva accumulato, secondo il Post, 30.573 falsità, quasi la metà delle quali nell’anno finale del mandato. Non si governa più con i tweet velenosi né si hanno licenziamenti a destra e manca a cui ci aveva abituati Trump.

La stabilità è dunque evidente con il nuovo presidente. Anche la professionalità come ci rivelano i comportamenti dei suoi collaboratori, specialmente comparandoli a quelli di Trump, alcuni dei quali venivano bruscamente licenziati o assunti. Biden, a differenza di Trump, non governa con tweet. Nonostante alcune nubi nelle ultime settimane tutto era iniziato in maniera promettente. Lo stimolo anti-Covid approvato con i soli voti dei democratici al Senato aveva contribuito a dare uno slancio all’economia. La gestione della pandemia sotto la guida di Biden aveva anche dato risultati iniziali promettenti specialmente considerando il numero di vaccinati. Biden era anche riuscito a tranquillizzare gli alleati che sotto la presidenza di Trump spesso non sapevano che pesci pigliare con le sparate inopportune del 45esimo presidente.

Il ritiro delle truppe dell’Afghanistan è stata una mossa positiva e coraggiosa da parte di Biden, che ha dovuto mettere al loro posto i generali che volevano continuare lo status quo. Ma la gestione del ritiro ha lasciato a desiderare. Gli americani comunque erano a favore della fine del conflitto, durato venti anni. E Biden ha chiarito che mantenere le truppe in Afghanistan non avrebbe migliorato la situazione e non voleva passare la patata bollente al suo successore.

A lungo andare, però, il ritiro delle truppe dall’Afghanistan si rivelerà un punto positivo. L’attenzione in affari esteri sulla Cina e la concorrenza commerciale ma anche geopolitica risulterà anche giudiziosa. Ecco come si spiega la formazione della nuova alleanza Aukus fra Stati Uniti, l’Australia e la Gran Bretagna, che include la costruzione di almeno otto sottomarini a propulsione nucleare per l’Australia. L’influenza della Cina in quella parte del mondo era aumentata causando tensioni commerciali ma anche politiche con l’Australia.

Ma agli americani importa soprattutto la politica interna poiché ha diretti effetti sul loro portafoglio. Biden, dopo lo slancio positivo iniziale, aveva programmato una serie di misure legislative per affrontare la sfida dell’economia e gli investimenti nel futuro. Questa strategia include un piano di infrastrutture propriamente detto di 1000 miliardi di dollari (solo 500 milioni in nuove spese) approvato in maniera bipartisan dal Senato, da spendersi in 8 anni. L’entusiasmo dei successi iniziali però aveva anche spinto l’ala sinistra del Partito Democratico a un piano supplementare di “infrastrutture umane” con investimenti sui bisogni energetici, climatici, ma anche sociali per una spesa totale di 3500 miliardi di dollari. I fondi verrebbero spesi in 10 anni. L’ala progressista dei democratici ha già indicato che non voterà il piano bipartisan se non sarà accompagnato da quello delle infrastrutture umane.

Una grande sfida per Nancy Pelosi, speaker della Camera. Ovviamente se ambedue i disegni di legge saranno approvati dai parlamentari, quello delle infrastrutture umane dovrà anche fare i conti col Senato. Si bypasserebbe il filibuster dei 60 voti richiesti nella Camera Alta usando la manovra di reconciliation poiché la legge avrebbe a che fare con il bilancio e quindi si potrebbe approvare con una semplice maggioranza.  Però rimane un problema:  due dei 50 senatori democratici non sono entusiasti della spesa, considerata eccessiva, anche se non hanno indicato quale cifra accetterebbero.

I repubblicani, da parte loro, hanno già indicato la loro opposizione e per reiterare il loro disappunto hanno fino ad ora minacciato di non approvare l’aumento del tetto al debito federale. In questa eventualità si andrebbe a finire allo “shutdown”, la chiusura dei servizi non essenziali del governo. Questa situazione coincide abbastanza frequentemente con severi danni all’economia americana. Lo “shutdown” del 2019, durato 35 giorni, ridusse il prodotto interno lordo di 11 miliardi nel quarto trimestre del 2018 e nel primo trimestre del 2019.

In questi giorni la Pelosi sta cercando di quadrare il cerchio tenendo i centristi democratici uniti all’ala sinistra del partito. La speaker si può permettere solo di perdere tre dei voti democratici e fare approvare ambedue disegni di legge sulle infrastrutture. Se vi riesce, e la storia ci dice che la sua abilità di manovrare il partito è molto affidabile, ci sarà poi lo scoglio al Senato. Infatti, questo è proprio il dilemma di Biden e del suo partito. Da una parte hanno la maggioranza in ambedue le Camere e controllano l’esecutivo alla Casa Bianca. Il problema è che la maggioranza è molto risicata e i repubblicani hanno già dato chiarissimi segnali di voler continuare nella loro strategia di ostruzione.

Nelle primarie democratiche del 2020 Biden si era presentato come centrista, in contrapposizione con l’ala sinistra del Partito Democratico rappresentata da Bernie Sanders e Elizabeth Warren. Da presidente, Biden ha abbracciato il programma liberal di questi due senatori e altri leader dell’ala sinistra del Partito Democratico. Si vedrà fra breve fino a che punto riuscirà a metterlo in atto.

*Domenico Maceri, PhD, è professore emerito all’Allan Hancock College, Santa Maria, California  (dmaceri@hotmail.com).

Commenta per primo

Lascia un commento