Quando vinse il primo Gran Premio in carriera aveva 17 anni, il primo Mondiale lo conquistò a 18 anni, il primo nella classe regina a 22. Ma era oggi, a 36 anni, che Valentino Rossi avrebbe voluto scrivere la storia. Invece, il modo in cui si è visto sfilare la “Decima” resterà per sempre nell’angolo più scuro della sua memoria. Anche se da sconfitto è stato acclamato pure dalla spagnola Valencia come fosse lui il vincitore. La condanna all’ultimo posto sulla griglia del “Ricardo Tormo” era già una mezza sentenza, ma non ha attenuato la convinzione di aver subito un’ingiustizia che gli ha impedito di giocarsi il titolo alla pari con Jorge Lorenzo. Il maiorchino trionfa a Valencia e si prende il titolo. Podio valenciano tutto spagnolo: Marquez 2°, Pedrosa 3°. Insomma, il “muro” spagnolo ha letteralmente accompagnato Lorenzo al traguardo senza mai provare a metterlo seriamente in difficoltà, senza mai provare ad attaccarlo (foto AP-Gazzetta dello Sport). Sembravano due gregari al Giro o al Tour. Mentre “The Doctor”, partito dall’ultimo posto in griglia ha scalato posizioni su posizioni: ben 22 sorpassi in 13 giri che gli hanno permesso di chiudere quarto. Se fosse riuscito a salire sul gradino più basso del podio, Valentino avrebbe vinto il suo decimo titolo Mondiale. Peccato.
La “corrida” di Valencia. In casa dei nemici Lorenzo e Marc Marquez, Rossi cercava il successo più inatteso, sudato, desiderato. Quello con cui festeggiare 20 stagioni di gare sul palcoscenico iridato. Inatteso perchè Valentino è arrivato in testa al Mondiale all’ultima gara senza partire favorito, nonostante gli ottimi risultati dei test in Malesia. Dopo la doppietta del 2013-2014, la Honda di Marquez sembrava ancora una moto marziana. E Lorenzo, compagno di box, ma sempre più agguerrito avversario in pista, era certo di non avere rivali in casa Yamaha. Due piloti rampanti, giovani, eppure già esperti di battaglie in pista.
Valentino immenso. Sarebbe stato il titolo più sudato perchè mai Rossi c’era arrivato tanto vicino con un distacco così esiguo e al termine di una battaglia mentalmente logorante come nel 2015. Non nelle stagioni dominate, quelle dal 2001 al 2005, quando aveva tenuto a -106 e -140 punti Max Biaggi, -80 e -47 Sete Gibernau, -147 Marco Melandri. E ancora, nel 2008, un solco di 93 punti scavato fra se e Casey Stoner. Prima di oggi proprio Lorenzo gli era arrivato più vicino, fermandosi a -45 nel 2009. Il decimo Mondiale resterà, per ora, il più desiderato. Valentino sa che in lui il sacro fuoco della velocità cova ancora. Non erano bastate a spegnerlo l’incidente del 2010, nelle prove del Mugello, con la frattura di tibia e perone. O le sciagurate stagioni con la Ducati, 2011 e 2012, le uniche senza un straccio di vittoria in quattro lustri di onoratissima carriera. Aveva allora deciso di ripartire con la Yamaha, ridare gas, tornare a scommettere sulla capacità di saper rinascere. A costo di non piccoli sacrifici. Negli anni ha dovuto imparare a confrontarsi con avversari di un’altra generazione motociclistica. Ha adattato lo stile di guida, continuando però a divertirsi. Scendere in pieghe sempre più ripide, risollevare la moto con maggiore sforzo e sottoporsi a più ore di palestra per riuscirci. Nè l’hanno distratto la passione per i rally e la Formula 1; la prima, un passatempo, la seconda rimasta un sogno.
Rossi, sconfitto e celebrato: una carriera straordinaria. Oggi esce battuto, fuori dalla pista prima che dentro e anche per colpa propria. Sono lontani i tempi del ragazzino scanzonato dei primi successi, un “Gian Burrasca” dei circuiti con i capelli lunghi ed un arco in mano sul podio di Donington (Gran Bretagna, 1997) omaggio alla leggenda di Robin Hood. Poi arriveranno la bambola gonfiabile per sfottere il detestato Biaggi (ma dopo Sepang in cima al libro nero c’è il nome di Marquez), le gag della multa per eccesso di velocità e della corsa a chiudersi in un bagno a bordo pista, “Rossifumi” ed il “pollo Osvaldo”, “Biancaneve ed i sette nani” per festeggiare il settimo titolo. Correndo e rischiando in giro per il mondo, quel ragazzino è diventato un uomo, il Maradona delle due ruote. Che adesso ha conosciuto anche il lato oscuro della sua passione, la sensazione di impotenza di fronte a forze che non ha saputo dominare ed hanno preso il sopravvento, decidendo al posto suo, fino a far deragliare la stagione che appariva la più bella di sempre. Certo, ci ha messo anche del suo: quel calcetto a Marquez rimane l’errore più grande della sua meravigliosa carriera di centauro.
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