LIBRI/ Il male in tv? Indigesto, per come è servito. Carmine Castoro lo analizza nel saggio “Il Sangue e lo Schermo”

di NINO E. EMONESI – “Il Male in tv, soffice pagliericcio su cui si appoggia il Potere, sconfessato finanche dal nostro destino, si riduce a pulsantiera di opzioni pulp. La paura diventa un pacemaker, uno dei tanti pneumotoraci che ci aiutano a inspirare, che ci fanno sentire vivi, e che fanno nelle nostre coscienze un baccano tintinnante di quattrini”. Parola di Carmine Castoro, giornalista professionista e filosofo della comunicazione, che al tema delicatissimo della pornografia del dolore in tv e sul web ha dedicato quest’ultima fatica saggistica Il Sangue e lo Schermo. Lo Spettacolo dei delitti e del terrore. Da Barbara D’Urso all’ISIS (Mimesis, pagg.258, euro 22).

Carmine Castoro è professore incaricato di Semiotics and Visual Communication alla Link Campus University di Roma; di Sociologia criminale e della devianza alla Fondazione Ludes Higher Education Institution di Malta; di Filosofia del crimine e Media Intelligence all’università di Foggia. Fra le sue ultime opere “Filosofia dell’Osceno televisivo. Pratiche dell’odio contro la tv del nulla” (2013) e “Clinica della tv. I dieci virus del Tele-Capitalismo” (2015).

L’ultimo libro sarà presentato ufficialmente a Roma sabato 11 novembre alle 18.30 presso l’associazione Casa d’Inchiostro in piazza del Fante 10.

Professore Castoro, allora, la D’Urso e le milizie del Califfo insieme?

«Barbara D’Urso e la “tv del dolore”, e l’ISIS esportatore di terrorismo, sono polarità lontane, certo, ma anche nodi di una stessa rete che ci spinge a vivere un’idea di Male sempre de-simbolizzata, de-storicizzata, in un apparato mediatico dove contano più le messinscene macabre, le drammaturgie scontate, le indignazioni da salotto e i sentimentalismi precotti, che non la filiera delle cause di un problema, la loro politicizzazione, la nostra responsabilità».

La paura è il trend topic del momento…

«La paura è un aggregatore di effetti e un riduttore di complessità, come dico io. Ce ne stiamo accorgendo con particolare vividezza negli ultimi tempi, quando un rosario micidiale di eventi a dir poco perturbanti per la loro portata, in Italia e nel mondo, ci ha inchiodati ai canali all news senza respiro, senza scampo. I padroni della videocrazia imperante rincorrono, con una banale iconografia della paura, attentati e calamità che non sanno illustrare – figurarsi prevenire – con un’adeguata informazione civica e poliedrica, e le cui manifestazioni più tremende preferiscono spalmare sul nulla di ore e ore di dirette costellate da racconti-routine, imbarazzanti opinionisti, imbarazzati inviati, cifre e probabilismi, videuzzi di reporter amatoriali trasmessi a go-go come se nella loro oscena ipervisibilità potessimo attingere le ragioni di una violenza che, invece, ancora sfuggono a molti».

Insomma, la suspense più banale si sostituisce ai tempi lenti della conoscenza e della consapevolezza.

«Siamo di fronte alla sovraesposizione grandangolare di un “fatto”, di un accadimento sul quale broadcaster e conduttori, giornalisti e testimoni “oculari” dovrebbero cominciare a riflettere seriamente per riformularlo in profondità. La televisione – e il web a ruota senza soluzione di continuità – insistono su temporalità sbagliate, se ancora è plausibile immaginare che mirino a quel minimo obiettivo di formazione e conoscenza, non di propaganda o intrattenimento, che dovrebbe essere il fine di ogni buon creatore di messaggi. Prevale il tempo contratto, istantaneo del dettaglio morboso; o quello saponoso del flusso inarrestabile. Isole digitali o torrente in piena. Frammenti senza storia o magnetismo che ci ipnotizza. Shock visivi e verbali o colata lavica senz’argini e senza contenuti degni di nota. Buco della serratura o retorica d’occasione. Manca la temporalità “media”, quella dell’osservazione partecipata, della raffinazione delle emozioni, delle analisi complesse, dei punti di sintesi, delle letture allargate governate dalla serietà e dalla reale competenza di chi parla, e non dei soliti “vip” narcisi e mistificatori a microfono sempre aperto. E soprattutto manca l’elemento “di fuga”, quello che dopo la comprensione ci spinga a una trasformazione democratica dell’esistente e a un upgrade etico e deontologico di tutti, in tutti i campi della vita pubblica e privata».

Siamo resi ansiosi e insicuri ogni giorno, su tutto…

«Il male non è più nell’orizzonte della tragedia e, conseguenzialmente, neppure in quello della prassi trasformatrice. Al posto della prima, abbiamo la sua trafilatura (quadri probatori, report, profiling, giallistica, Big Data, format tv), e al posto della seconda, una prammatica dei transfert: oggi ci spaventa questo, domani quello,  oggi ci riproponiamo di erigere palizzate e spianare mortai contro questo nemico, domani faremo lo stesso con un altro dimenticandoci del primo, e non perché abbiamo trionfato sgominandolo, ma semplicemente perché abbiamo voltato pagina di un giornale o cambiato canale con altri tiggì e altre esecrazioni da provare, o perché expertise istituzionali e screening di settore ci sottopongono delle vulnerabilità da colmare, o perché attività peritali di corpi professionali ipotizzano profilassi o conferiscono assegnazioni e marcature speciali dentro circuiti di efficienza».

Soluzioni e cure?

«Un odio culturale verso tutti quei conduttori, intrattenitori, giornalisti intruppati e imbonitori che dicono di fare il nostro bene, di “informarci”, di fare tutto “col cuore” e per noi, e che non fanno altro che portare nuova linfa a quel laboratorio globale delle messinscene che ha trasformato i nostri cervelli in stagni di dati inconcludenti, insignificanti e ignobili».

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