di ENNIO SIMEONE – Con rammarico ho dovuto constatare che anche un prestigioso giornalista come il vice direttore del Corriere della sera Antonio Polito (che annovero con orgoglio tra i miei “allievi” agli albori della carriera) ha aggiunto la sua indignazione al profluvio di deprecazioni che hanno subissato la immaginifica locuzione usata da Beppe Grillo per qualificare il frenetico dimenarsi, in questa campagna referendaria, del capo del governo, in giacca e cravatta nelle finestre televisive che gli vengono generosamente spalancate o impugnando un microfono in maniche di camicia sui palchi delle piazze di città e borghi di provincia.
La metafora usata da Grillo – come ormai si sa per l’eco che ha suscitato – è “scrofa ferita”. Associare la longilinea figura del promotore della riforma costituzionale, benché impinguita da quando dallo scranno di sindaco di Firenze è passato alla dimora di Palazzo Chigi, a una femmina di suino è apparso ai più di una irriverenza intollerabile. Se, invece che la scrofa, il fantasioso leader pentastellato avesse evocato, poniamo, semplicemente una “belva ferita” nessuno si sarebbe scandalizzato. Ma la scrofa no!
Attingere alla “Fattoria degli animali” di George Orwell è prassi consolidata non solo in politica, come si sa, ma l’autore della più celebre satira del totalitarismo staliniano non ha mai usato quella parola, pur avendo inserito il maiale (“Old Major”) tra i protagonisti del suo straordinario romanzo.
Tuttavia dei tormenti e degli strazianti lamenti di una “scrofa ferita” narra Carlo Levi nel suo “Cristo si è fermato ad Eboli” descrivendo le sofferenze di una giovane femmina di suino sottoposta al rito del “sana-porcella” cui aveva assistito ad Aliano in Lucania, dove era stato confinato dal fascismo.
Forse, se confessasse di essersi abbeverato a questa fonte, Grillo verrebbe perdonato. O, quanto meno, lo sdegno suscitato nei commentatori potrebbe attenuarsi, pur non raggiungendo la tolleranza che finora è stata usata per il ricorso a gufi e corvi evocati dal “premier” per irridere ai suoi avversari politici, o alle quaglie per descrivere i salti che parecchi parlamentari hanno fatto da uno scranno all’altro per indossare le penne del pavone di membri della maggioranza di governo. O al cuor di leone dimostrato dai tanti deputati che si fregiano del titolo di onorevoli grazie al porcellum.
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