IL MOSTRO FA DISCUTERE/ La serie Netflix sul serial killer che insanguinò Firenze e dintorni disorienta il pubblico. Un racconto che tradisce la verità

*di PAOLO COCHI/ C’è un silenzio che scende, denso come fumo, quando la promessa di un grande racconto si infrange. Così è per “Il Mostro”, la serie di Stefano Sollima presentata a Venezia 82 e accolta su Netflix come un evento destinato a riscrivere il modo di raccontare il male. Un’attesa febbrile, un sogno di visioni nuove, di verità finalmente riscoperte nel buio dei delitti che hanno marchiato l’Italia. Ma la speranza, ancora una volta, si sgretola. Perché “Il Mostro” è, prima di tutto, una caduta. Una caduta di stile, di ritmo, di ispirazione. Sollima, regista che un tempo sapeva dare voce al caos urbano e alla tensione morale, qui sembra smarrirsi in una costruzione artificiosa, fredda, impastata di ambizione e mancanza di cuore. Il risultato è un’opera che vorrebbe scavare nell’abisso e invece resta in superficie, prigioniera del proprio impianto estetico.

Gli inquirenti cercano un senso, ma trovano solo il vuoto. Un’arma, una Beretta calibro 22, li guida verso un delitto antico, un altro atto di follia che lega il presente al passato: quello di Stefano Mele, muratore sardo, che anni prima uccise la moglie Barbara e il suo amante. Da quel punto, la narrazione diventa una spirale di sospetti, nomi, ossessioni. Francesco e Salvatore Vinci emergono come figure d’ombra, ma la verità, se mai c’è stata, si dissolve in una nebbia che non si dirada.

La forma senza l’anima. Sollima sceglie la via del simbolo, della ricostruzione psichica, e abbandona la concretezza. La “pista sarda” diventa un universo chiuso, primitivo, dominato da un patriarcato violento, da un senso di possessione che riduce la donna a corpo e colpa. Ma il racconto, pur denso di intenzioni, non decolla mai. La struttura frantumata, i continui salti temporali, l’alternanza disordinata tra anni ’60 e ’80 finiscono per confondere più che illuminare. La tensione svanisce, il ritmo si spezza, la parola si fa lenta. È come se ogni scena nascesse già stanca, priva di quella scintilla vitale che da sempre caratterizza l’autore.

La delusione. C’è un senso di impotenza nello spettatore, mentre la serie scorre come un fiume torbido che non porta da nessuna parte. Le quattro puntate si trascinano, imprigionate in una recitazione forzata, in dialoghi che suonano come pietre, in un’atmosfera che vorrebbe inquietare ma finisce per anestetizzare. La mano di Sollima, un tempo precisa e tagliente, qui si perde. Il regista tenta di costruire un affresco sociale, una riflessione sulla violenza di genere e sul degrado culturale, ma ciò che resta è un’eco spenta, un monito che non scuote. Tutto sa di già visto, di calcolato, di prodotto più che di opera. La Procura, le indagini, la stessa analisi del male sembrano recitate con l’anima assente, come in un rituale ripetuto troppe volte.

La verità tradita. E come se non bastasse la delusione artistica, la serie è anche piena di omissioni e imprecisioni gravi, che tradiscono la sostanza storica dei fatti. Mancano gli alibi dei protagonisti, solidi, documentati, che escludevano la loro partecipazione ai delitti. L’omicidio del 1968, fulcro della narrazione, viene ricostruito in modo completamente errato: la vittima, colpita al lato sinistro, viene mostrata in posizione opposta a quella accertata da autopsie e analisi balistiche. Si ignora perfino il dettaglio, piccolo ma devastante, del bambino Natalino, che aveva i calzini strappati e impolverati, segno che camminò da solo quella notte.

La figura di Salvatore Vinci è deformata, alterata, quasi irriconoscibile. Eppure, la sera del delitto di Vicchio egli aveva un alibi inattaccabile, e tornò a Firenze, come risulta dai documenti ufficiali. Ci si chiede, allora, con amara ironia: quali atti hanno letto gli autori della serie? Ma ciò che davvero pesa è l’uso improprio del termine “femminicidio”, sbandierato come bandiera morale in una vicenda dove la maggior parte delle vittime erano coppie, uomini e donne uccisi insieme, amanti uniti nella stessa tragica sorte. Definire tutto questo “femminicidio” non è solo impreciso: è offensivo, un colpo basso per i familiari degli uomini che hanno perso la vita in quegli stessi campi.

Epilogo. Netflix, con la sua potenza globale e la sua fame di storie, avrebbe potuto onorare il dolore, la complessità, la verità. Ha scelto invece di semplificare, di ridurre, di piegare la realtà alla retorica. E così questo “Mostro” non è un’opera di memoria, ma un’altra ferita: uno schiaffo ai parenti delle vittime, a chi ancora oggi attende giustizia, a chi crede che il racconto del male non possa prescindere dal rispetto dei fatti. Alla fine, “Il Mostro” non sconvolge, non ferisce, non commuove. Rimane sospeso, come un quadro incompiuto. È un grido che non trova voce, una confessione scritta sulla sabbia. E nel vuoto che lascia dietro di sé, resta solo la malinconia di ciò che avrebbe potuto essere: una grande serie sul mistero più oscuro d’Italia. Un viaggio dentro il male. Un’opera che, invece di illuminare le tenebre, vi si è smarrita per sempre.

*Da Paolo Cochi (documentarista e scrittore) riceviamo e volentieri pubblichiamo

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