DOMENICO MACERI/ L’ombra di George Bush sul fratello Jeb

di Domenico Maceri/

“Non mi è sembrata una domanda difficile”: così l’ex senatore della Pennsylvania Rick Santorum ha commentato con un po’ d’ironia l’inciampata di Jeb Bush durante un’intervista alla Fox News. La giornalista Megyn Kelly aveva domandato all’ex governatore della Florida: “Se avesse saputo quello che sappiamo adesso, avrebbe autorizzato l’invasione dell’Iraq?”.   Bush ha risposto di sì spiegando che anche Hillary Clinton avrebbe fatto la stessa cosa. Dato che la giustificazione principale per la guerra in Iraq era il possesso di armi di distruzioni di massa da parte di Saddam Hussein, rivelatasi falsa, la risposta giusta doveva essere negativa. Ed infatti quasi tutti i politici di destra e di sinistra hanno dato questa risposta.
Jeb però ha tentennato per parecchi giorni, offrendo risposte inconcludenti e alimentando le polemiche sulla decisione del fratello di iniziare la guerra in Iraq. Alla fine però ha anche lui ammesso che “sapendo quello che sappiamo adesso” avrebbe preso una decisione diversa da quella assunta dal fratello George.
Una delle spiegazioni date da Jeb è che aveva frainteso la domanda. I fatti però dipingono un quadro molto più complesso per la sua difficoltà di prendere le distanze dal fratello George. Jeb professa il suo amore per la sua famiglia e ciò include anche il fratello ed il padre, già  inquilini alla Casa Bianca. L’amore famigliare non si mette in discussione. Il problema però rimane la politica del fratello e specialmente la decisione di intraprendere la guerra in Iraq.
Jeb non ha ancora dichiarato ufficialmente che sarà candidato alla presidenza ma tutto fa prevedere una simile mossa. In un recente discorso ci ha informato che nella sua lista dei consiglieri vi sarebbero centristi ma anche “falchi”, molti dei quali hanno lavorato per il padre ed il fratello. Jeb ci ha anche annunciato che sulla politica del Medio Oriente il fratello George sarebbe il suo principale consigliere. Politicamente questo si rivelerà uno sbaglio perché ogni volta che si menziona il fratello ci si ricorda della guerra in Iraq, che la maggioranza degli americani adesso vede come un disastro. Persino il sessanta percento degli elettori repubblicani dice che il prezzo pagato per quella guerra non valeva la pena, soprattutto quando gli si ricorda il costo ed il numero dei morti.
Jeb ha ragione di dire che lui agisce in modo autonomo e che dovrebbe essere giudicato per quello che fa e non per il suo cognome. Infatti, lui aveva lasciato il Texas per farsi la carriera in Florida sia dal punto di vista economico che politico. Ebbe successo ovviamente divenendo il governatore dello Stato.
Sarebbe ingenuo però dire che lui abbia fatto tutto da sé senza usare il suo cognome per farsi strada. Le sue e-mail già pubblicate ci dicono per esempio che quando rivolgeva raccomandazioni allo staff del padre alla Casa Bianca  veniva preso seriamente perché era il figlio del presidente. Inoltre per le sue campagne politiche in Florida il nome Bush lo avrà aiutato notevolmente.
Adesso però, considerando l’operato del fratello come quarantatreesimo presidente degli Stati Uniti, il cognome ha una doppia lama. Da una parte continua ad aiutarlo; e così  si spiega il fatto che solo pochi mesi fa i grossi contribuenti repubblicani hanno informato Mitt Romney che preferivano si facesse da parte preferendo appoggiare la candidatura di Jeb.  Dall’altra parte però c’è sempre l’ombra del fratello George con il grosso fardello della guerra in Iraq da portarsi addosso. Un fardello che diventa più pesante data la recente difesa di George della sua decisione di intraprendere la guerra in Iraq nonostante l’assenza delle armi di distruzione massiva. Fin quando il quarantatreesimo residente della Casa Bianca stava silenzioso concentrandosi sulle sue pitture era più facile dimenticare il periodo buio della guerra nel Medio Oriente. Non appena George Bush apre la bocca ricorda a tutti il suo fallimento e di conseguenza macchia la candidatura del fratello.
Dopo parecchi giorni di esitazioni però Jeb è finalmente riuscito ad uscire dal pantano sull’Iraq. Ha dichiarato che le domande da farsi sull’Iraq devono mettere da parte il passato e concentrarsi sulla situazione attuale e determinare se il ritiro delle truppe americane ordinato da Obama ha causato l’ascesa dei sanguinari jihadisti dell’Isis.
Una mossa politica azzeccata, ma solo a metà. La prossima domanda sarebbe: che cosa farebbe lei, signor Bush, per risolvere la situazione in Iraq e nel Medio Oriente? Fino a questo momento le risposte di Jeb, che si limitano a criticare Obama, ci dicono che probabilmente ci riporterebbe ad una politica che echeggia quella del fratello George.

* Domenico Maceri
è docente di lingue a Allan Hancock College, Santa Maria, California (dmaceri@gmail.com).

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