Con l’appoggio della destra approvata in seconda lettura in Senato la riforma costituzionale. Ora tocca alla Camera. Poi solo il referendum potrà fermarla. I punti chiave

boschi-renzidi LUCA DELLA MONICA – Il Senato ha approvato il ddl con le riforme costituzionali con 180 sì, 112 no e 1 astenuto. La parola passa ora alla Camera per l’approvazione definitiva, che appare scontata. La maggioranza che sostiene il governo Renzi non sarebbe riuscita da sola ad approvare il ddl Boschi per il quale era necessaria la maggioranza assoluta di 161 voti. Sfogliando i tabulati si legge infatti che hanno detto sì alla riforma anche 2 senatori di FI (Bocca Bernabò e Riccardo Villari), 17 verdiniani e 3 esponenti di “Fare” che hanno come leader l’ex sindaco di Verona, Tosi. E se dai 180 sì raggiunti in Aula si tolgono 17 più 3 più 2 si arriva a 158. A questo si aggiunga il no al testo del Dem Walter Tocci. La minoranza del Pd, sempre in nome dell’unità del partito, si è calata le brache, come al solito, e ha dato il suo voto a questa riforma che, abbinata alla legge legge elettorale “Italicum”, diventa una porcheria.

Ecco perché, intervenendo nell’Aula del Senato, Matteo Renzi si è rivolto ai senatori affermando che “il gesto di acconsentire con un voto a maggioranza assoluta al superamento (?) del Senato non ha eguali non nella storia italiana, ma in quella dell’Ue”.  E ha aggiunto, “La storia politica italiana si occuperà di questa giornata e la storia sarà gentile con voi. Il Paese vi deve una gratitudine istituzionale”.

Naturalmente Renzi ha colto l’occasione per ringraziare ancora Giorgio Napolitano: “Se non ci fosse stato il suo discorso nell’aprile 2013 non ci sarebbe questa riforma e non sarebbe in piedi questa legislatura”. Ma soprattutto non sarebbe lui il presidente del Consiglio, cosa che Napolitano avrebbe dovuto e potuto evitare.

Poi la solita minaccia:”se perdessi il referendum considererei conclusa la mia esperienza perché credo profondamente nel valore della dignità della cosa pubblica”. Ma poi ringrazia per gli innumerevoli voti di fiducia estorti al parlamento con la minaccia dello scioglimento e con sfoggio di ipocrisia ha detto: “In due anni non riesco a contare il numero delle volte in cui vi abbiamo chiesto la fiducia; in questo forse abbiamo esercitato un record non positivissimo” ma “la cosa bella è che non ce l’avete mai negata”. Una beffa, ancora una volta, per la cosiddetta sinistra dem.

Alla Camera è scontata l’approvazione definitiva; quindi è opportuno sintetizzare i punti salienti della riforma.

 1. La Camera sarà l’unica Assemblea legislativa e anche l’unica a votare la fiducia al governo. I deputati rimangono 630 e verranno eletti con una legge elettorale che assegna il 55% dei seggi alla lista che otterrà il 40% dei voti o che (non arrivando a questo obiettivo) contenderà al ballottaggio la maggioranza assoluta alla seconda classificata.

2. Il Senato non è affatto abolito, e continuerà a chiamarsi Senato della Repubblica, ma sarà composto da 95 eletti dai Consigli Regionali (21 sindci e 74 consiglieri-senatori), più cinque nominati dal Capo dello Stato che resteranno in carica per 7 anni. Avrà poteri ridotti (competenza legislativa piena solo su riforme costituzionali e leggi costituzionali) ma potrà chiedere alla Camera la modifica delle leggi ordinarie, però la Camera non sarà tenuta a dar seguito alla richiesta. Su una serie di leggi che riguardano il rapporto tra Stato e Regioni, la Camera potrà non tener conto delle richieste del Senato solo respingendole a maggioranza assoluta.

3. Saranno i cittadini, al momento di eleggere i Consigli Regionali, a indicare quali consiglieri saranno anche senatori e i Consigli ratificheranno la scelta. Questa è l’unica modifica che è riuscita ad ottenere la minoranza del Pd: ben poca cosa, un meschino pasticcio nel pasticcio. I 95 senatori saranno ripartiti tra le Regioni in base al loro peso demografico. I consiglieri regionali nominati senatori godranno dell’immunità come i deputati e a differenza degli altri consiglieri regionali: non potranno essere arrestati o sottoposti a intercettazione senza l’autorizzazione del Senato.

4. Sono riportate dalle Regioni allo Stato alcune competenze come energia, infrastrutture strategiche e sistema nazionale di protezione civile. Su proposta del governo, la Camera potrà approvare leggi nei campi di competenza delle Regioni, “quando lo richieda la tutela dell’unità giuridica o economica della Repubblica, ovvero la tutela dell’interesse nazionale”: altra forma di tutela pilotata dal governo.

5. Il presidente della Repubblica lo eleggeranno i 630 deputati e i 100 senatori (via i rappresentanti delle Regioni previsti oggi). Per i primi tre scrutini occorrono i due terzi dei componenti, poi dal quarto si scende ai tre quinti; dal settimo scrutinio sarà sufficiente la maggioranza dei tre quinti dei votanti (oggi il quorum è più basso: maggioranza assoluta degli aventi diritto dalla quarta votazione in poi).

6. Cinque dei 15 giudici della Corte Costituzionale saranno eletti dal Parlamento: 3 dalla Camera e 2 dal Senato.

7. Referendum: occorrerà un quorum minore per i referendum sui quali sono state raccolte 800.000 firme anziché 500.000: per renderlo valido dovranno votare la metà degli elettori delle ultime elezioni politiche, anziché la metà degli iscritti alle liste elettorali.

8. Leggi di iniziativa popolare: saranno necessarie  150.000 le firme (e non più 50mila)  per presentare un disegno di legge di iniziativa popolare. Però i regolamenti della Camera dovranno indicare tempi precisi di esame, clausola che oggi non esiste.

9. Incostituzionalità di una legge elettorale. Viene introdotto il ricorso preventivo sulle leggi elettorali alla Corte Costituzionale su richiesta di un quarto dei componenti della Camera. Tra le norme transitorie c’è anche la possibilità di ricorso preventivo già in questa legislatura, quindi l’Italicum, se fosse approvato, potrebbe finire subito davanti alla Corte Costituzionale.

10. Province: vengono cancellate dalla Costituzione, atto necessario per abrogarle definitivamente. Abrogato anche il Consiglio nazionale Economia e Lavoro, attualmente organo costituzionale secondo la Carta del 1948.

 

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