Attenzione, con il secondo “discorso della sconfitta” Renzi tenta il rilancio

Renzi addio con mogliedi ENNIO SIMEONE – “Renzi ha dimostrato di non saper vincere, ma attenzione: è uno che sa perdere”. E’ una considerazione fatta su La7 da Franco Bechis, vice direttore di “Libero”, scivolata nel mare di giudizi, previsioni commenti riversatisi ieri notte sui telespettatori da tutti i canali televisivi. La prova di quanto fossero azzeccate quelle parole è arrivata subito dopo, quando, appena passata la mezzanotte, il capo del governo si è offerto all’attesa dei giornalisti, facendosi affiancare, discretamente a distanza, dalla moglie Agnese, per ammettere la clamorosa sconfitta nel referendum e annunciare il proposito di presentarsi l’indomani dimissionario, insieme al suo governo, dal presidente della Repubblica.

Un discorso recitato con il sorriso sulle labbra e il groppo alla gola, che anche alcuni suoi avversari hanno giudicato dignitoso, persino nobile. Proprio come lo fu quello – stesso stile, quasi le stesse parole – che recitò 4 anni fa (26 novembre 2012)  dopo essere stato sconfitto da Bersani nelle primarie per la designazione del candidato del centrosinistra alla carica di capo del governo nelle elezioni della primavera 2013. Persino il sottoscritto ci cascò in pieno, affermando che Renzi aveva fatto il suo più bel discorso da quando era apparso sulla scena politica nazionale. E tutti pensammo che la sua carriera di aspirante n.1 della politica italiana si sarebbe fermata lì.

Invece, non fece passare nemmeno cinque mesi da quella luminosa esibizione di umiltà e di lealtà per consumare la sua vendetta. E che vendetta!

La prima occasione per far saltare Bersani e bruciargli con un colpo solo la carica di segretario e l’aspirazione di formare un governo – alla quale era stato autorizzato dalla famosa “non vittoria” delle elezioni (che però fruttò al Pd quella maggioranza assoluta di parlamentari alla Camera, di cui lui poi si sarebbe servito) – fu la bocciatura della elezione di Romano Prodi alla carica di capo dello Stato (aprile 2013), grazie  ai 101 parlamentari del Pd (molti legati a lui, Renzi) che non votarono la candidatura del “professore” proposta ufficialmente da Bersani e approvata dalla finta all’unanimità dei deputati e senatori del suo partito. Di conseguenza Bersani fu costretto a dimettersi da segretario del partito e a subire l’onta del rifiuto di Napolitano di affidargli l’incarico di formare il governo aggrappandosi alla stolta ostilità dei grillini.  E fu lui, Renzi, a prenderne il posto di segretario del Pd con le primarie dell’8 dicembre 2013 grazie alla norma ad hoc che ammetteva al voto tutti gli elettori, anche quelli che con il Pd non avevano nulla a che spartire. Vinse.

Ma quella era solo una tappa intermedia della sua arrampicata. La successiva seguì di appena 2 mesi, con il celebre messaggio rassicurante enricostaisereno all’ex vice segretario del Pd Enrico Letta, diventato capo del governo dopo il siluramento di Bersani ad opera di Napolitano. Era il febbraio 2014.

Da quel primo “discorso della sconfitta” alla conquista del potere assoluto Renzi impiegò solo un anno e mezzo, usando come leva il controllo del partito per imporre la sfiducia a Letta e imporre la sua volontà ai gruppi parlamentari tenendoli sotto il ricatto dello scioglimento delle Camere se non avessero obbedito ai suoi ordini e votato ciò che lui chiedeva di votare. Compresa l’aberrante riforma costituzionale, compresa la legge elettorale Italicum, comprese tutte le leggine (come quella degli 80 euro usata per il boom elettorale delle europee) con meschine elargizioni a questa e a quella categoria, mandando il messaggio che per intascarle “bastaunSì”.

Stavolta sono stati molti di più gli italiani che non ci sono cascati. Ma, siamo tutti avvertiti, non… bastaunNo per frenare la sua ambizione, cancellare i danni che ha provocato, impedire quelli che può ancora provocare. Ecco perché non è credibile questo suo secondo, nobile, “discorso della sconfitta”. C’è da sperare che militanti e esponenti del Pd a tutti i livelli lo capiscano. E che Mattarella non ricalchi le orme del Napolitano del secondo mandato.

A capo del governo abbiamo bisogno soprattutto di una persona seria, istituzionalmente e culturalmente attrezzata, che operi stando con i piedi per terra, senza la fregola di una fretta pasticciona per rincorrere la popolarità a tutti i costi, che rispetti – non a parole – le prerogative del parlamento e ne tenga conto, che abbia come obiettivo una crescita del paese fondata sul riequilibrio degli enormi scompensi sociali ed economici che l’affliggono, e che, sia pur lentamente ma progressivamente, contribuisca a dare un assetto al funzionamento di tutte le articolazioni dello Stato, a partire dalla giustizia e dalla pubblica amministrazione. E che si sappia circondare di persone all’altezza di questi compiti. 

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