Addio Valentina Cortese. Per intere generazioni è stata un mito del cinema e del teatro anche se non le fu attribuito l’Oscar

E’ morta Valentina Cortese, un mito del cinema e del teatro per intere generazioni. Si è spenta a Milano all’età di 96 anni. La camera ardente è stata allestita al Piccolo teatro Grassi,  lo stesso luogo in cui fu allestita la camera ardente di Franca Rame. I funerali si svolgeranno venerdì 12 luglio alle 11 nella chiesa di San Marco.

“Con la scomparsa di Valentina Cortese lo spettacolo italiano perde l’ultima diva del cinema e del teatro” commenta Carlo Fontana, Presidente AGIS – Associazione Generale Italiana dello Spettacolo. “Una perdita ancor più dolorosa – conclude Fontana – per il sottoscritto, che ha avuto l’onore di conoscerla e frequentarla sin da giovane”.

“Dei tanti ricordi che mi legano alla Cortese – continua -, indimenticabile quello legato alla sua interpretazione nei panni di Ilse ne I giganti della montagna, uno dei suoi maggiori successi in ambito teatrale, un mondo nel quale entrò prepotentemente grazie all’incontro con Giorgio Strehler”.

  BIOGRAFIA DI UNA DIVA – Iniziò a recitare a soli quindici anni e, dal 1942, dopo aver respirato una manciata di film, venne innalzata ai cieli stellari mondiali. La chiamarono in molti modi. Spesso, per le amiche, era solo Valentina. Per gli addetti ai lavori fu “La Cortese”. Di nome e di fatto. Per tutti, nessuno escluso, fu la Diva.

Lavorò tanto bene sul palcoscenico quanto davanti alla cinepresa o alla telecamera. E pur mantenendo un’impalpabile presenza, occupò un posto predominante fra le attrici di punta del cinema italiano, durante la Seconda Guerra Mondiale. Alcuni di quei bei nomi, che coincidevano anche con belle speranze, lasciarono evaporare ogni sogno di fama precocemente (Mariella Lotti, Adriana Benetti, Rubi Dalma, Luisa Garella, Loredana). Invece altre come lei, come Alida Valli, come Marina Berti o Anna Magnani continuarono imperterrite a lavorare, fra i fumi delle bombe e l’odore di morte e miseria. Con una carica del genere, non potevano che catturare l’attenzione di Hollywood.

La Cortese, in particolare, ci riuscì grazie alla performance di una donna che ispirava la creatività di un brillante compositore in una delle prime produzioni italo-britanniche post-belliche La montagna di cristallo (1948). Non dovette fare altro che firmare un contratto milionario per la 20th Century Fox e accettare di andare via dall’Europa. Al pubblico americano venne imposta con ruoli eterei, ma contrassegnati da umili origini o sporchissimi trascorsi. Per esempio, per Jules Dassin fu una prostituta appassionatamente innamorata di Richard Conte nel noir I corsari della strada (1949). Una prova d’attrice sulla quale VARIETY non lesinò complimenti: “Lei e Conte hanno il più importante incarico carnale della pellicola e l’amore che generano tra loro pulisce il personaggio della Cortese dalla censura”.

In seguito, arrivarono ruoli più “rispettabili”, ma spesso tendenti al fantastico o al mistero. Fu il caso di Zoraida in Cagliostro (1949) o della Victoria Kowelska in Ho paura di lui (1951), dove un enigmatico omicidio si mischia a storie sui campi di concentramento. Dopo che Joseph L. Mankiewicz la volle in La contessa scalza (1954), decise di ritornare in Italia, pur non rinunciando a partecipare comunque a produzioni internazionali. Una scelta che le portò fortuna visto che, anni dopo, venne candidata all’Oscar come miglior attrice non protagonista per il capolavoro francese Effetto notte (1973) di François Truffaut. Il regista stesso ammise che scegliere la Cortese gli aveva fatto comprendere quanto favolosa potesse e che il suo ruolo da attrice alcolizzata, così convincente e avviluppato in una melodrammatica spirale esistenziale, era il trionfo di una sua perversione da regista che covava da lungo tempo, soprattutto se messa a contrasto con la dolce bellezza di Jacqueline Bisset e con la compostezza di Jean-Pierre Aumont. E quando la pellicola vinse l’Academy Award per il miglior film straniero, aggiunse: “È facile vincere un Oscar quando si lavora con Valentina Cortese”.

Lei, purtroppo, non arrivò a stringere la dorata statuetta tra le mani. Passò invece a quelle di Ingrid Bergman per Assassinio sull’Orient Express. Eppure, a sorpresa, proprio l’attrice svedese che era arrivata al suo terzo premio Oscar, ringraziando, confessò al pubblico che avrebbe preferito vedere al suo posto proprio Valentina. “È così ironico che quest’anno lei sia stata nominata per un film che ha vinto l’anno scorso. Non lo capisco, ma eccomi qui come sua rivale e non mi piace per niente! Per favore, Valentina, perdonami. Non era mia intenzione. Grazie!”.

Ma cosa ebbe di così speciale la Cortese rispetto alle altre? Perché titoli come L’orizzonte dipinto (1940), La cena delle beffe(1942), La regina di Navarra (1942), Orizzonte di sangue (1943), Quartetto pazzo (1945), I miserabili (1948), Malesia, Giulietta degli Spiriti e Fratello Sole, Sorella Luna furono l’ossatura di una irripetibile carriera? La risposta stava nell’essenzialità: saper emozionare. Era intensa e faceva luce su piccoli ruoli come solo una grandissima attrice è capace di fare. Seppe, inoltre, destreggiarsi con saggezza tra lo Star System italiano e quello statunitense, senza mai scendere a compromessi nell’uno e nell’altro e, soprattutto, senza mai cedere alla tentazione di diventare una “donna da cronaca rosa”. La fama da rotocalco la lasciava ad altre divette, preferendo la multiformità dell’atmosfera che era capace di creare con la sua sola presenza. Con un gesto, uno sguardo. Non per nulla, l’aggettivo che usò più di frequente per descriversi era “evanescente”. E come l’aria, Valentina Cortese fu raffinatamente elementare nel suo spostarsi di continuo tra cinema, teatro e televisione, scendendo profondamente in basso in registi comici, per poi elevarsi, inarrivabile, ai livelli più alti del dramma. Sfruttando una sovrapposizione di tecniche recitative, di stili e di insegnamenti pratici, combinò le sue interpretazioni, caratterizzate da una voce incalzante e un corpo incisivo. A ogni lavoro, trasfigurava se stessa continuamente. Partiva da un’immagine e la seguiva in un percorso drammaturgico che era in grado di far andare il pubblico in un viscerale corto circuito.

Nel privato, un privato stretto alla sua carriera professionale (va riconosciuto), fu caratterizzata da un modo leggerissimo di percepire la realtà circostante. Molto note le sue amicizie femminili: le già citate Alida Valli e Ingrid Bergman, Giulietta Masina, Silvana Mangano, Clara Calamai, per non parlare di Joan Crawford e Audrey Hepburn (da lei raccomandata personalmente a William Wyler per Vacanze Romane). Lunghi e sentimentali, invece, i legami maschili. Quello con Giorgio Strehler fu uno di questi, che contribuì non solo a consolarne il cuore spezzato, ma anche a farla camminare sulle assi del palcoscenico con tutta la sua accomodante eleganza. Assi che tremarono per i lunghi applausi che scaturirono ogni volta che il sipario calava davanti a lei.

Dopo il suo ritiro dalle scene, il regista Francesco Patierno le dedicò il documentario tributo Diva!, sancendone la memoria, nonché lo status di artista dell’arte drammatica super corteggiata da registi di ogni nazionalità. E siccome non c’era un’attrice italiana che potesse sopportare il peso di questa grande donna, Patierno scelse di dividere alcuni brani tratti dalla sua autobiografia “Quanti sono i domani passati” nella voce di otto attrici diverse (Barbora Bobulova, Anita Caprioli, Carolina Crescentini, Silvia d’Amico, Isabella Ferrari, Anna Foglietta, Carlotta Natoli e Greta Scarano).

Nella memoria di tutti, è ancora ricordata con la testa fasciata in immancabili e iconici foulard rosa cipria o cerulei. Una donna che, nonostante l’età, era ancora capace di sorprendere e di prestarsi a sensazionali colpi di scena. Fu la più moderna tra le attrici della sua generazione. Sofisticata, senza volerlo necessariamente esserlo. Vecchio stampo, senza mai esserlo veramente dentro.

I primi ciak

Originaria di Stresa, crebbe in una comunità contadina, malgrado la sua famiglia avesse ricche origini. Dotata di una straordinaria bellezza, le venne proposto di recitare in un film dal titolo L’orizzonte dipinto che poi segnò il suo debutto. Ma il primo importante ruolo fu quello di Lisabetta nello scandaloso La cena delle beffe con Amedeo Nazzari e diretta da Alessandro Blasetti. Da quel momento in poi, divenne una presenza fissa di Cinecittà, partecipando a numerosi film commerciali fino alla fine degli Anni Quaranta. Maturata tra un ciak e l’altro, crebbe accanto ad altri nuovi volti dell’epoca, come quello di Marcello Mastroianni (suo compagno di set in I miserabili e Lulù). Molto rapidamente, venne considerata un’eccellente attrice, capace di dare il meglio soprattutto nelle vesti di donne sperdute e schernite dalla vita.

Il periodo americano
Il suo fascino spopolò a tal punto che venne messa sotto contratto dall’industria cinematografica hollywoodiana, nientemeno accanto a prestigiosi colleghi come James Stewart, Spencer Tracy, Ava Gardner, Humphey Bogart e Rossano Brazzi. Elettrizzata dalle nuove possibilità che la vita le offriva, fece l’indicibile davanti alla cinepresa, pur di trovare una collocazione tutta sua in mezzo a quel nutrito esercito di meravigliosi volti. La sua serena malinconia e il trepido turbamento di certi suoi personaggi ne fecero accrescere la celebrità, tanto che Charlie Chaplin le chiese di essere la protagonista di Luci della ribalta (1952). A causa della gravidanza, dovette però rifiutare, avvertendo in un secondo momento la necessità di una brevissima pausa da tutta quella frenesia, magari coincidente con un ritorno in Italia.

Nastro d’Argento per Le amiche
In patria, la aspettava Michelangelo Antonioni e il suo Le amiche (1955), grazie al quale vinse il Nastro d’Argento come miglior attrice non protagonista. Delle cinque attrici che componevano il cast principale (lei, Eleonora Rossi Drago, Yvonne Furneaux, Madeleine Fischer e Anna Maria Pancani) fu di gran lunga la più meritevole. Non si limitò all’Italia, però. Si spostò in Spagna per girare Calabuig (1957) di Luis García Berlanga e in Francia. Poi finalmente, si ritirò dalle scene, formalizzando il suo divorzio con l’attore Richard Basehart e godendosi il ruolo di madre del piccolo Jackie, il suo unico figlio.

Il ritorno sulle scene
Ritornò al cinema rinvigorita solo all’inizio degli Anni Sessanta. Ottima nel primo storico giallo all’italiana La ragazza che sapeva troppo di Mario Bava (1963), fu poi diretta da Richard Fleischer in Barabba (1961) con Anthony Quinn, Vittorio Gassman e Ernest Borgnine. Grande amica di Federico Fellini, fu sinuosa e vezzosa nei panni dell’intellettuale sofisticata di Giulietta degli Spiriti, ritrovandosi poi a dividere il set di La vendetta della signora con Ingrid Bergman. Richiamata in America per il film di Robert AldrichQuando una stella muore con Kim Novak, Peter Finch e Rossella Falk, si sposterà nella neonata televisione italiana partecipando spesso a programmi tv e sceneggiati (da ricordare la sua energicamente inquieta Gerda Arnoldsen ne I Buddenbrook, diretta da Edmo Fenoglio).

Candidata all’Oscar
Scelta personalmente da Truffaut per interpretare un’attrice come tante in Effetto notte, venne ricordata soprattutto per la “scena della porta”, nella quale mostrò tutte le debolezze e le insicurezze di ogni attrice, quando non riesce ad azzeccare una battuta e ad aprire la giusta porta di scena. L’Academy si innamorò del film e nominò all’Oscar la Cortese che però, come già spiegato, si ritrovò ad applaudire e ringraziare per le gentili parole la Bergman.

“Il giardino dei ciliegi”
Con un background teatrale importantissimo alle spalle (aveva cominciato a calcare le scene già nei primi varietà del ’44), proseguì questo percorso più assiduamente, influenzata dal regista Strehler. “Platonov e gli altri”, “La congiura”, “El nost Milan”, “L’eredità del Felis”, “Donne senza paradiso – La storia di San Michele “, “Arlecchino servitore di due padroni”, “I giganti della montagna”, “Santa Giovanna dei Macelli” e soprattutto “Il giardino dei ciliegi” furono tra le opere che più la impegnarono al Piccolo Teatro di Milano. Senza tuttavia mettere da parte il cinema e la televisione, soprattutto se firmati da Franco Zeffirelli (Gesù di Nazareth, Storia di una capinera). Versatilissima, passava dalla commedia ai polizieschi (La città sconvolta: caccia spietata ai rapinatori, 1975), dagli horror ai film con Paul Newman e William Holden (Ormai non c’è più scampo), da Carlo Vanzina (Via Montenapoleone) a Terry Gilliam (Le avventure del barone di Munchausen, 1988), con tutta quell’estrema leggerezza che la circondava e la riempiva.

Il ritiro dalle scene e la morte
Si ritirò nei primi Anni Duemila, dopo aver portato in scena il “Magnificat” di Alda Merini. (da mymovies.it) 

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