di RAFFAELE CICCARELLI*/ Le grandi squadre sono caratterizzate dai grandi giocatori: resta quasi una banalità calcistica, ma rende l’idea di chi deve comporre un team per farlo diventare grande. È vero anche un altro assunto, però: a volte i grandi giocatori non riescono a far grande una squadra, ma restano a immagine della stessa, identificandosi totalmente in essa. È stato il caso di Antonio Juliano, “Totonno” per tutti, simbolo incancellabile di un Napoli non vincente come quello attuale, ma di certo legato a un romanticismo e a un calcio che fu di cui sempre più spesso si finisce per sentire la nostalgia, forse proprio perché legato più ai valori degli uomini piuttosto che a quello dei soldi. Del resto, per uno nato giusto ottant’anni fa in un popolare quartiere di Napoli, legarsi imperituramente ai colori azzurri era assolutamente naturale. Arrivato dalla Fiamma Sangiovannese, una squadra di quartiere, al settore giovanile azzurro, si impose subito per carisma e qualità tecniche, tanto da meritarsi la convocazione in prima squadra da parte di Bruno Pesaola, allora allenatore dei campani, conquistandosi il posto, diventando da subito “il capitano”, il punto di riferimento sia per i compagni, sia per la società.
La lunga carriera con gli azzurri partenopei. Quasi un ventennio passato con la maglia del cuore a difenderne i colori in campo, con Giuseppe Chiappella, Luis Vinicio e Gianni Di Marzio, oltre a Pesaola, come allenatori, accarezzando in qualche occasione il sogno della grande vittoria, il più delle volte frustrato dallo strapotere delle squadre del Nord, Juventus in primis. Un solo “tradimento” al Napoli da parte di Juliano, quando andò a disputare la sua ultima stagione a Bologna, ma fu quasi una ripicca contro Corrado Ferlaino e Di Marzio che lo volevano fuori dalla squadra, ma lui andò a giocarsi quell’ultima stagione, anche se era appunto a fine carriera e la cosa non avrebbe mai scalfito la sua immagine di Capitano Azzurro, come fu chiamato da Gianni Brera, che lo considerava, e così era, il vero motore di gioco della squadra. Tra i tanti, Juliano vanta anche il record di essere stato il primo napoletano ad essere convocato in Nazionale, nelle rose di tre rappresentative mondiali, quelle di Inghilterra ’66, Messico ’70, Germania Ovest ’74, diventando Campione d’Europa nel 1968, contrassegnando il suo passaggio in Nazionale anche con le polemiche, dovute all’accusa di scarso impiego dei giocatori del Sud.
L’uomo che portò Maradona al Napoli. Poche soddisfazioni pratiche, sempre l’orgoglio di dare il massimo per il suo Napoli, e quello che non gli riuscì da calciatore, si prodigò di ottenere da dirigente. Appesi gli scarpini al chiodo, infatti, proprio Ferlaino, con cui aveva concluso male la sua vicenda agonistica, lo chiamò al ruolo di Direttore Sportivo, il suo primo grande ingaggio fu quello di Ruud Krol, e con l’olandese in campo arrivò il terzo posto, ma il suo capolavoro fu l’avere portato all’ombra del Vesuvio Diego Armando Maradona, anche se per divergenze con l’Ingegnere non poté godersi da protagonista i primi scudetti vinti dal Napoli, che comunque influenzò proprio con l’acquisto del Pibe de Oro, diventato simbolo stesso della città. Una vita di totale dedizione calcistica alla sua squadra, alla sua città, come ben rispecchiano queste sue parole: “La maglia azzurra è la mia seconda pelle… Napoli è una città difficile, troppo passionale. Costruisce e distrugge. Si entusiasma e si deprime. Nel calcio ci vuole pazienza, continuità, passione lucida, impegno e deve aiutare la fortuna come in tutte le cose della vita.” Parole d’amore. Addio, Capitano.
*Storico dello sport
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