Sulle polemiche per i boss mafiosi scarcerati va in onda su “La7” uno scontro telefonico tra il magistrato Di Matteo e il ministro Bonafede sulla scelta del capo del DAP. Ma Giletti chiude in fretta per dare la parola…a Briatore

di ENNIO SIMEONE – Ieri sera, poco prima della mezzanotte, dopo 3 ore e mezzo di trasmissione, è accaduto qualcosa di clamoroso o – secondo i punti di vista – di singolare nel programma de La7Non è l’Arenacondotto da Massimo Giletti. Stava per concludersi la parte dedicata alla intricata vicenda delle dimissioni del capo del DAP (Dipartimento Amministrazione Penitenziaria), Basentini,  dopo le scarcerazioni, avvenute nei giorni scorsi, di alcuni boss mafiosi per motivi di salute, quando il confronto tra gli ospiti (tra i quali l’ex ministro della Giustizia Franco Martelli, il sindaco di Napoli  ed ex magistrato De Magistris e l’eurodeputato M5s Giarrusso) è scivolato sulla sostituzione del dimissionario con un altro magistrato.

A quel punto è arrivata una telefonata del magistrati antimafia Nino Di Matteo, il quale ha inopinatamente raccontato il seguente retroscena: nel 2018 – ha affermato – il ministro della Giustizia (che anche allora era Alfonso Bonafede), gli aveva telefonato offrendogli di assumere il ruolo di dirigente del Dap, offerta che però poi, dopo pochi giorni, quando si erano incontrati di persona, si era trasformata in proposta di assumere la Direzione degli Affari Penali, cioè lo stesso incarico che era stato ricoperto nel 1992 da Giovanni Falcone. Di fronte a questo mutamento di proposta, siccome avveniva dopo che erano circolate voci secondo cui alcuni detenuti mafiosi avrebbero manifestato preoccupazioni per  la sua destinazione al vertice del Dap, Di Matteo rifiutò.

Passano pochissimi minuti ed ecco arrivare in trasmissione la telefonata del ministro Bonafede. Il quale si dice esterrefatto per la versione fornita da Di Matteo sull’episodio, che peraltro lui conferma, ma con una precisazione rilevante: la proposta  che lui aveva fatto a Di Matteo nell’incontro avuto al ministero, cioè la Direzione degli Affari Penali del Ministero, era più importante di quella del DAP. Inoltre la circostanza che lui avrebbe cambiato decisione dopo aver saputo dell’intercettazione dei pareri negativi dei boss sull’eventuale incarico a De Matteo di dirigere il DAP è improponibile perché quella intercettazione era già stata pubblicata prima che lui offrisse al magistrato la direzione del DAP. Quello di capo degli Affari Penali, che Di Matteo ha poi rifiutato, “non era affatto un ruolo minore, ma, anzi, più di frontiera nella lotta alla mafia. Tant’è che è lo stesso incarico che ricoprì Giovanni Falcone”.

Giletti –  che incredibilmente nell’Arena preferisce fare il toro più che il torero – non lascia altro spazio al ministro per esporre le sue motivazioni, perché – dice – “devo cambiare pagina e devo dare la linea ad altri ospiti”. Chi? Uno dei suoi clienti abituali, il miliardario Briatore. Il quale, come al solito, deve parlar male del governo sul coronavirus, come se non fosse bastata la lunga intervista, in prima serata, a Giorgia Meloni. Comunque Bonafede riesce a trovare uno spiraglio di pochi secondi per ricordare all’urlante conduttore e ai telespettatori che nei suoi due anni da ministro della Giustizia ha firmato 680 decreti di applicazione del carcere duro ad altrettanti mafiosi in applicazione dell’articolo 41 bis. E questo, Di Matteo, lo sa.

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