Un modo ambiguo di affrontare a scuola argomenti delicati come il decreto sicurezza

di ALFONSO INDELICATO* – Riesplode con una certa regolarità sui media la polemica sui “professori comunisti”. Forse sarebbe meglio, per affrontare più correttamente il problema, parlare di “professori politicizzati”, ma è anche vero che il più delle volte, quando la questione viene sollevata, essa riguarda docenti di un preciso orientamento. Tale è il caso verificatosi in quel di Crotone, dove un insegnante di liceo pare abbia assegnato ai suoi studenti un compito in cui si chiedeva di paragonare il Decreto Sicurezza recentemente passato alle Camere con le leggi razziali del 1938. Si è trattato insomma di un compito che di per sé possedeva un orientamento, che esercitava una pressione. Inoltre il parallelo è a nostro avviso oggettivamente inesatto, a dir poco. Le leggi razziali facevano riferimento a differenze e gerarchie di ordine biologico, e utilizzavano il concetto di “purezza” razziale che  è lontano mille miglia dal testo legislativo di ispirazione salviniana.

Ma lasciamo stare il caso particolare, e affrontiamo la questione, come si diceva, in modo che possa valere per ogni istanza di natura propagandistica che si sovrapponga  all’attività didattica.

AESPI non coltiva, come modello di docente, quello di un soggetto asettico, indecifrabile quanto al proprio mondo valoriale e anche politico. Per essere più chiari e concreti, non prediligiamo quel tipo di collega che, alla domanda di uno studente che gli chiede un’opinione personale sua una questione politica, non gli risponde trincerandosi dietro l’espressione “l’insegnante non deve fare politica in classe” o simili. Crediamo che questo atteggiamento non sia utile e non sia neppure credibile, in quanto la politicizzazione negata a parole tracima spesso in mille altri modi, magari meno chiari, magari più subdoli.

Non vi è nulla di male se il docente (parliamo naturalmente di quello delle scuole superiori) pur senza sbandierare in classe il proprio orientamento politico, a richiesta lo renda noto. E anche che risponda a domande secondo il proprio punto di vista, senza barcamenarsi in cerca di una anodina equidistanza fra parti diverse. Di più: se si tratta di un insegnante di Storia, non vi è nulla di male, anzi è positivo, che egli spieghi i fatti alla luce delle proprie convinzioni. Anche questo – pure se non solo questo – è la libertà di insegnamento. Vi è però un discrimine che separa la lezione dalla lezione faziosa, cioè dalla propaganda, e cerchiamo di tratteggiarlo di seguito.

Nel momento in cui un docente esprime la propria valutazione, deve avere l’onestà di chiarire che essa è per l’appunto la propria, e che ce ne sono altre degne di interesse e rispetto, e che nella storia e nella storia del pensiero pure hanno trovato luogo. Deve inoltre spiegare da quali premesse culturali deriva la valutazione che ha proposto, da quali derivano quelle che ad essa si contrappongono. Senza demonizzare o ridicolizzare queste ultime, ma illustrandone le ragioni. In altre parole non deve essere unilaterale, non deve espungere dal novero dallo scibile ciò che non gli aggrada. In questo modo la lezione sarà, oltre che più onesta, più viva. Gli studenti apprezzeranno il fatto di trovarsi di fronte un essere fatto di carne e sangue che nella lezione mette se stesso, e allo stesso tempo ne apprezzeranno l’equilibrio, la capacità di  riconoscere uinicuique suum pur senza irenismi e falsi ecumenismi.

È un difficile equilibrio, certo. Ci vuole occhio, pazienza, tolleranza, onestà con se stessi e con i ragazzi. Anche un po’ di coraggio. Ma è tutto questo che rende la lezione un momento alto, una quotidiana bella avventura.

*Alfonso Indelicato, responsabile comunicazione dell’AESPI (Associazione Europea Scuola e Professionalità Insegnante)

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