STORIA DELLO SPORT/ “Vola come una farfalla, pungi come un’ape”. Il mito di Muhammad Alì

ciccarellidi RAFFAELE CICCARELLI*/

Tutti gli sport hanno degli atleti che fungono da punti di riferimento, che con le loro imprese sportive hanno finito con l’identificarsi con la disciplina stessa. Questo è vero soprattutto negli sport individuali, dove è più facile il processo identificativo con il protagonista di queste imprese, ed è evidenziabile principalmente negli sport di fatica. È in questi, infatti, che il campione diventa eroe, in cui il sudore, la fatica, lo sforzo fisico, il dolore stesso diventano gli unici compagni di viaggio verso l’alloro della vittoria. Il pugilato è uno di questi sport, dove devi lottare per superare il tuo avversario e anche te stesso, prepararti fino a sfinirti per incassare i colpi senza cadere, pronto a restituirli, dove il sangue delle ferite si mescola al sudore della fatica, dove il gong finale ti fa essere vincitore se hai saputo soffrire più del tuo avversario.

Il più grande. Tutto questo è il pugilato, tanti ne sono stati gli eroi, uno si è elevato sopra tutti: Cassius Marcellus Clay, o Muhammad Alì, come si fece chiamare dopo la conversione all’Islam. Nato a Louisville, nel Kentucky, nel 1942, in una nazione americana sensibilmente razzista, da subito il piccolo Cassius capì che avrebbe dovuto lottare per far valere i propri diritti, il carattere era già combattivo ma il pugilato ancora lontano. Fu un poliziotto, tale Joe Martin, che ne intuì le possibilità, o quanto meno ne indirizzò l’esuberanza caratteriale portandolo in una palestra. Fu l’inizio della leggenda. Cassius Clay, sul ring, in quel piccolo, grande mondo racchiuso tra le dodici corde, trovò la sua dimensione, il talento sbocciò, dando anche modo di esprimere attraverso esso la sua protesta, di far sentire la sua voce. Il fisico lo portò a combattere nei pesi medio massimi prima e massimi dopo ma, nonostante la categoria “pesante”, egli impostò il suo pugilato sull’agilità e la leggiadria dei movimenti.

“Vola come una farfalla, pungi come un’ape”. Fu questo il famoso mantra coniato da un suo secondo, Drew Brown, che accompagnò la prima parte della sua carriera che lo portò fino alla nazionale olimpica statunitense che partecipò ai Giochi di Roma del 1960, vincendo l’oro e facendosi conoscere al mondo. Sembrò una vittoria che potesse schiudergli le porte di una vita “normale”, in realtà il colore della sua pelle continuava ad essere fonte di discriminazione, tanto da indurlo, in un moto di rabbia, a lanciare via la sua medaglia, ritenendo inutile vincere per quel paese che ancora non gli riconosceva equi diritti. La sua protesta continuò, clamorosa, quando fu renitente alla leva, rifiutando di andare a combattere in Vietnam: “Non ho niente contro i Viet Cong, loro non mi hanno mai chiamato negro”. Fu la frase motivazionale di quella sua decisione, che gli costò la licenza per combattere e una lontananza dal ring che durò poco più di tre anni. Alla fine ritornò, la sua boxe aveva intanto acquistato potenza, era giunta l’ora dei match epocali.

La nascita di un mito. Cassius Marcellus Clay iniziò a scrivere la sua epopea nel 1964 quando, a ventidue anni, senza i favori del pronostico, batté l’allora campione Sonny Liston grazie al mix di velocità e potenza che caratterizzava il suo pugilato. Scelto, proprio subito dopo quell’incontro, il nome di Muhammad Alì, egli incontrò nuovamente Liston nella difesa del titolo, vincendo ancora, anche se qualche dubbio resta su quest’ultimo e sul fatto che sia andato a tappeto in seguito a quello che è passato alla storia come The phantom punch (Il pugno fantasma).

Match che hanno fatto la storia. Dopo il ritiro della licenza, il suo ritorno coincise con due incontri che sono diventati pietre miliari nella storia del pugilato, conosciuti con titoli quasi da film: The Rumble in the Jungle e Thrilla in Manila. Nel primo egli sfidò George Foreman in un match attesissimo disputato a Kinshasa, nello Zaire. Iniziato alle cinque del mattino per esigenze televisive, con una folla delirante, tra i locali che inneggiavano ad Alì (Alì Bouma Ye, Alì Uccidilo), l’incontro fu altamente drammatico e vinto con sagacia strategica da quest’ultimo, che nella prima parte si limitò a subire stancando l’avversario anche con l’aiuto delle corde, tranne attaccarlo di sorpresa all’ottavo round, tempestandolo di colpi fino al KO. Un anno dopo cambiò l’avversario, stavolta era Joe Frazier, che già aveva incontrato due volte, perdendo e vincendo, per cui quella doveva essere la sfida definitiva su chi era il più forte. Lo scenario era ancora esotico, Manila nelle Filippine, il combattimento violento, senza esclusione di colpi, fino alla quattordicesima ripresa, quando il getto della spugna dall’angolo di Frazier decretò l’ennesimo trionfo di Alì.

Il tramonto. Dopo questi incontri, caratterizzati anche dalla grande verve dialettica del campione, iniziò il lento declino fino al ritiro nel 1981. Poco dopo, nel 1984, a Muhammad Alì fu diagnosticato il morbo di Parkinson, che rimandava al mondo l’immagine di un uomo fiaccato nel fisico dalla malattia, ma ancora e sempre indomito a lottare, una volta per  i suoi diritti civili, oggi come esempio di lotta per la vita contro la malattia. Ora questa luce si è spenta, resta solo la leggenda…

*Raffaele Ciccarelli

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