Quali rischi per il Sud dal federalismo “rafforzato” nelle Regioni del Nord

di SERGIO SIMEONE *– In un precedente articolo facevo dell’ironia sul fatto che un tentativo del Direttore della Normale di Pisa, professore Vincenzo Barone di aiutare la città di Napoli a dotarsi di una scuola di eccellenza sul modello di quella pisana era stato frustrato con ringhioso accanimento dal sindaco di Pisa Michele Conti sostenuto dalla Lega. In realtà c’è poco da ridere: si è trattato solo del prodromo di una battaglia di ben più ampia portata che, innescata dai referendum di alcune Regioni del nord e favorita da uno sciagurato accordo tra le stesse Regioni e il Governo Gentiloni, si svilupperà nei prossimi mesi.

Che cosa vogliono queste Regioni? Vogliono una maggiore autonomia in molte materie, tra le quali scuola, sanità e lavoro ed una riduzione del “residuo fiscale”. Vogliono, cioè, detto in parole povere, potenziare i servizi nelle materie divenute di loro competenza utilizzando una parte di quelle risorse che vengono oggi destinate alle regioni più povere in nome del principio costituzionale di solidarietà nazionale. Il risultato sarebbe quello di avere le regioni ricche con servizi sanitari e scolastici sempre più efficienti e le regioni povere con scuole ed ospedali di sempre più bassa qualità. Detto in parole ancora più povere, se è vero che il sistema sanitario segnala la qualità della vita di un popolo e la scuola è il volano dello sviluppo, il Meridione rischierebbe di sprofondare nel medioevo.

Sul pericolo di una rottura della coesione nazionale hanno lanciato un vivo allarme Adriano Giannola, presidente dello SVIMEZ e il professore Gaetano Stornaiuolo della Federico II di Napoli. Questo appello è stato raccolto e rilanciato da molti intellettuali meridionali, tra i quali, significativamente, il filosofo napoletano Roberto Esposito, docente presso la Normale di Pisa. Si è pronunciato anche con la sua consueta chiarezza l’ex direttore del Corriere della sera De Bortoli.

Ma nel governo come stanno le cose?

Salvini, notoriamente antimeridionale, diplomaticamente non si scopre molto (per non perdere il seguito che è riuscito a guadagnarsi al sud), ma sente il fiato sul collo di Luigi Zaia e Roberto Maroni. Quest’ultimo ha esplicitamente dichiarato che se non dovesse andare in porto il progetto di “ federalismo differenziato” sarebbe meglio che il governo cadesse. I Cinquestelle, che hanno ricevuto un consenso plebiscitario nel Mezzogiorno, non possono ovviamente vedere di buon occhio questa pulsione egoistica, che emerge dalle richieste delle Regioni del nord. Finora, però, solo la combattiva deputata napoletana Nugnes ha espresso esplicitamente e con nettezza la sua ferma opposizione. E gli altri? E Di Maio?

Probabilmente il punto debole dei Cinquestelle in questa vicenda è proprio Di Maio. Lui è convinto che la causa principale della perdita di consenso del movimento e sua personale sia la mancata realizzazione (almeno finora) della più importante promessa elettorale, il reddito di cittadinanza. Di Maio dunque non vede l’ora di raggiungere questo obiettivo e sarebbe disposto, come Faust, a vendersi anche l’anima pur di raggiungerlo. Questa sua disponibilità del resto l’ha recentemente dimostrata con un tour nel Veneto dove ha voluto dare ampie assicurazioni che il federalismo rafforzato si farà.

Per fortuna un po’ di tempo c’è ancora. Conte ha detto che si prenderà una pausa di riflessione fino a metà febbraio. Questo tempo non va sprecato. E’ ora che scenda in campo la società civile attraverso i corpi intermedi, e tra questi in primo luogo i sindacati. Soprattutto la CGIL: il sindacato di Di Vittorio non può assistere inerte allo scempio che si vuole fare del Mezzogiorno. I tre sindacati confederali hanno già annunciato una manifestazione per il mese di gennaio contro alcune scelte economiche e politiche del Governo gialloverde. Ebbene lo sviluppo del Mezzogiorno deve essere un tema centrale in questa manifestazione.

Poi ci sarebbero i partiti di sinistra ed il Pd, che potrebbe anche smettere di guardarsi l’ombelico in questa interminabile attesa delle primarie. Qualcuno potrebbe dire che questo partito non può avere voce in capitolo perché Gentiloni ha firmato a suo tempo l’accordo con le Regioni del nord. E invece no. Proprio opponendosi a quell’accordo il Pd potrebbe dimostrare che vuole davvero cambiare strada.

*Sergio Simeone, docente di Storia e Filosofia, è stato dirigente del sindacato Scuola Cgil

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