PROCESSO D’APPELLO. Bossetti inveisce contro il procuratore, che chiede…più dell’ergastolo: “Viene qui a dire idiozie!”

Ha preso il via davanti alla Corte d’Assise di Appello di Brescia il processo di appello per l’assassinio di Yara Gambirasio. Unico imputato è Massimo Bossetti, condannato in primo grado all’ergastolo. All’inizio dell’udienza i legali di Bossetti hanno chiesto alla Corte la possibilità che il loro assistito potesse sedersi al banco della difesa, anziché all’interno della gabbia riservata agli imputati. La Corte lo ha concesso e Bossetti, uscendo dalla gabbia, ha salutato con un sorriso e una stretta di mano la moglie Marita Comi (nella foto con l’avvocato Salvagni, difensore del marito) presente in aula e seduta subito dietro gli avvocati della difesa. Questo il calendario delle udienze: 6, 10 e 14 luglio, con un’udienza di riserva fissata per il 17 luglio.

Secondo il procuratore generale della Repubblica, la sentenza di primo grado è “ineccepibile, completa e logica”. Eppure la difesa di Bossetti ha ancora qualche carta da giocare, tra le quali una inedita. Come anticipato dal “Fatto quotidiano”, nei motivi aggiuntivi al ricorso in appello depositati nei giorni scorsi dai legali Claudio Salvagni e Paolo Camporini è allegata una fotografia acquisita dai satelliti che porta la data del 24 gennaio 2011, un mese e due giorni prima del ritrovamento del corpo di Yara nel campo di Chignolo d’Isola. “L’immagine – spiegano gli avvocati – mostra l’esatto punto del ritrovamento del corpo della vittima che, tuttavia, parrebbe non essere identificabile”. L’obiettivo è quello di dimostrare che il corpo, al contrario di quanto sostenuto dall’accusa, non è rimasto tre mesi nel campo, ma è stato portato lì in un secondo momento.

L’accusa. A incastrare Bossetti non ci sarebbe però solo il Dna sugli slip e sui leggings di Yara, secondo i giudici della Corte d’Assise di Bergamo che hanno condannato il carpentiere all’ergastolo. Contro di lui ci sarebbero anche altri elementi come le celle telefoniche, il furgone, le fibre tessili e le sferette metalliche trovate sul corpo della piccola ginnasta, uccisa a coltellate alla schiena, al collo e ai polsi. Yara, questo racconta l’autopsia, non muore subito ma dopo una lunga agonia e stremata anche dal freddo a Chignolo d’Isola, non lontano, precisa l’accusa, da un negozio dove Bossetti si riforniva di materiale per il suo lavoro.

Ora i giudici bresciani sono chiamati a riconsiderare i pilastri dell’accusa alla luce delle critiche mosse dai legali di Bossetti, secondo i quali “è palese l’errore giuridico della sentenza di primo grado che, ritenendo di attribuire la traccia genetica a Bossetti, ne ha fatto derivare in automatico la prova dell’omicidio”.

Le sferette metalliche. Sul corpo di Yara sono state trovate fibre tessili “compatibili” con la tappezzeria dei sedili del furgone di Bossetti e delle “sferette metalliche” che ricondurrebbero a una persona che lavora “nel mondo dell’edilizia”. Per la difesa sono elementi che non proverebbero nulla, anche perché nel furgone non ci sono tracce della vittima.

Il Dna. La traccia biologica trovata sugli slip e sui leggings di Yara e attribuita a ‘Ignoto 1’ è quella che ha portato al fermo del presunto assassino dopo tre anni e mezzo di indagini molto faticose. Una ricerca, quella del codice genetico, che riscrive la genealogia di un’intera valle. Il presunto killer sarebbe nato da una relazione extraconiugale tra Ester Arzuffi, 67 anni, e Giuseppe Guerinoni, autista deceduto nel 1999 originario di Gorno. È dal dna estratto dal suo cadavere riesumato che si arriva a Bossetti. Da una consulenza tecnica emerge però un problema. Il dna nucleare combacia con quello del muratore, ma quello mitocondriale, che indica la linea materna, non corrisponde. Per il pm Letizia Ruggeri basta il dna nucleare, per i legali di Bossetti “è un mezzo dna contaminato la cui custodia e conservazione sono il tallone d’Achille di un processo indiziario”.

Le celle telefoniche. Il 26 novembre 2010, quando Yara scompare dopo avere consegnato uno stereo nella palestra di via Locatelli a Brembate di Sopra, l’ultima telefonata del carpentiere di Mapello è delle 17,45, poi il telefono resta muto sino alle 7,34 del mattino successivo. L’ultima cella che aggancia è quella di via Natta a Mapello, circostanza che inchioderebbe Bossetti perché l’imputato aggancia la stessa cella della vittima. La difesa sottolinea però che il traffico telefonico è identico a quello di tutti gli altri giorni.

Il movente e l’alibi. Bossetti, è la tesi dell’accusa, “non sa spiegare perché il suo dna si trova sugli indumenti della vittima”. La difesa evidenzia invece come non sia emerso dalle indagini un possibile movente. Le ricerche pornografiche effettuate col computer di famiglia risalgono a tre anni dopo la morte della ragazzina. E comunque nella biografia di Bossetti non ci sono precedenti che possano farlo configurare come un potenziale adescatore di minorenni.

E quando il pg Marco Martani  ha preso la parola per argomentare il suo punto di vista, naturalmente colpevolista (come accade nel 99 per cento dei processi), Bossetti è sbottato: “Viene qua a dire idiozie!”, ha protestato alzandosi in piedi, richiamato dalla guardie penitenziarie. In quel momento il magistrato stava affermando che le fibre trovate sul corpo di Yara combaciano con quelle del furgone del muratore. Che invece, a quanto pare, è una delle incongruenze dell’indagine che ha portato Bossetti in carcere con l’accusa di aver ucciso la povera Yara.

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