OSSERVATORIO AMERICANO/ L’altalena tra candidati ricchi perdenti e candidati poveri vincenti

Domenico Maceridi DOMENICO MACERI –

“Jeb Bush è una marionetta dei suoi donatori. Io non devo favori a nessuno”. Donald Trump ha etichettato con queste parole uno dei suoi avversari alla nomination del Partito Repubblicano. Non c’è dubbio che i soldi sono strettamente legati alla politica. Prima dell’inizio della campagna per le primarie si era sparsa la voce che Mitt Romney, sconfitto da Obama nel 2012, intendeva ricandidarsi. I grossi finanziatori che lo avevano sostenuto nella sua corsa per la Casa Bianca gli hanno detto di no. Avevano scelto un altro: Jeb Bush. L’ex governatore della Florida però non è stato un buon investimento perché il mancato successo nelle prime tre primarie lo ha costretto ad abbandonare la corsa. Considerando il fatto che nell’elezione del 2012 ambedue, Romney e Barack Obama, hanno speso un miliardo di dollari, i grossi contributori per il Partito Repubblicano dovranno scegliere un altro. Marco Rubio, il senatore della Florida, sembra essere il probabile erede di Bush.
Nel caso in cui Trump dovesse vincere la nomination bisognerà vedere se lui manterrà la promessa e spenderà uno dei suoi molti miliardi oppure comincerà a chiedere denaro ai grossi contribuenti. Dato che lui ha deriso i suoi avversari che si presentano al convegno bi-annuale degli ultraricchi fratelli Koch per spiegare le loro idee e chiedere finanziamenti, Trump troverebbe difficile fare la stesa cosa. Ciononostante i Koch hanno stanziato quasi un miliardo di dollari da investire in politica per quest’anno.
Il magnate di New York si può permettere il lusso di autofinanziarsi ma potrebbe perdere i suoi soldi. Uno studio del National Institute on Money in State Government ci dice che  solo l’undici per cento dei politici che pagano la loro campagna elettorale vincono le elezioni. Trump potrebbe dunque cambiare idea, come spesso fa con tante altre cose, e chiedere piccoli contributi ai suoi sostenitori oppure cedere e “vendersi” ai grossi finanziatori.
È questa la strada presa dalla stragrande maggioranza dei politici repubblicani e anche di Hillary Clinton, i quali hanno ignorato la probabile collusione dei soldi in politica. Bernie Sanders, invece, ha scelto la strada più difficile chiedendo piccoli contributi e rifiutando i superpacs. Con dieci o cinquanta dollari è difficile “comprare” Sanders. Scegliere il cammino della “povertà” può funzionare specialmente se il messaggio politico si congiunge alla condizione finanziaria personale del candidato. È questa la situazione di Sanders. Con un patrimonio che si aggira sui 300 mila dollari, il senatore del Vermont è uno dei più poveri di tutto il Congresso.
I politici che accettano fondi da ricchi e poveri spesso però ci ricordano delle loro modeste origini. Marco Rubio, con un patrimonio che si aggira sui 400 mila dollari, anche lui povero comparato ai suoi colleghi,  ci ricorda con frequenza delle sue radici operaie citando i lavori umili del padre (barista) e della madre (commessa). Ciononostante, Rubio cerca di nascondere con poco successo il fatto che la stragrande maggioranza dei suoi fondi vengono da pochi grossi donatori.
I soldi in politica sono indispensabili ma non garantiscono il successo. Secondo uno studio Jeb Bush ha speso quasi tremila dollari per ognuno dei voti ricevuti nelle primarie dell’Iowa piazzandosi al sesto posto con meno del 3% dei voti. Nelle primarie del New Hampshire ha fatto meglio spendendo quasi 1.200 dollari per ogni voto conquistando il quarto posto. Donald Trump il vincitore nel New Hampshire, ha speso solo 38 dollari per voto beneficiando però della vasta pubblicità gratis offertagli dai media. E Bernie Sanders, il vincitore del Partito Democratico, ha speso solo 54 dollari a voto.
Ci vorrebbero i finanziamenti pubblici per controllare la decisione Citizens United della Corte Suprema che  ha letteralmente eliminato quei pochi limiti esistenti ai contributi permettendo agli ultraricchi di sporcare le elezioni. L’ex presidente Jimmy Carter lo ha chiarito molto bene quando ha detto che questa decisione della Corte Suprema ha fatto nascere  una “corruzione politica senza limiti”.

*Domenico Maceri docente di lingue all’Allan Hancock College, Santa Maria, California  (dmaceri@gmail.com)

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