OSSERVATORIO AMERICANO/ Il braccio di ferro sulla verità fra Trump e Comey

di DOMENICO MACERI*

“Posso dire categoricamente che il presidente non è un bugiardo”. Con queste parole, Sarah Huckabee, portavoce di Donald Trump, ha reagito alle testimonianze di James Comey, ex direttore dell’Fbi (Federal Bureau of Investigation). Comey, parlando davanti alla commissione intelligence del Senato, aveva difeso se stesso e l’Fbi dissentendo dalla spiegazione del presidente Trump sul suo licenziamento. Secondo l’ex direttore del Fbi, la spiegazione data da Trump alla Nbc che aveva licenziato Comey per la confusione e bassa morale dell’agenzia e per lo scarso rendimento del direttore erano “solo bugie”. Comey ha dichiarato la sua completa delusione per essere stato “diffamato” personalmente ma anche per le offese a tutto l’Fbi che lui aveva diretto per quattro anni.

Trump nella sua intervista alla Nbc aveva detto che il licenziamento era dovuto alla scarsa prestazione di Comey ma che l’inchiesta del Russiagate era anche nella sua mente. Per Comey, il licenziamento si doveva al fatto che lui non aveva fermato l’inchiesta, la cui ombra ingombra l’amministrazione di Trump. Secondo l’ex direttore dell’Fbi, le divergenti spiegazioni per il suo licenziamento date dai portavoce del presidente e quella di Trump non rappresentano la verità. Lui è sicuro che è stato cacciato per il suo rifiuto di lasciare perdere l’inchiesta sui contatti di collaboratori di Trump con rappresentanti della Russia durante la campagna elettorale.
Non si sa esattamente chi avrà ragione, ma Comey ha preso appunti dopo i suoi incontri con Trump perché credeva che il presidente potesse mentire. Evidentemente in un incontro alla Casa Bianca Trump chiese a tutti i presenti di uscire dalla Stanza Ovale per potere parlare a quattr’occhi con Comey. Trump chiese a Comey di “lasciare perdere” l’inchiesta su Michael Flynn,  ex direttore della National Security Agency, perché era “una brava persona”. Comey, secondo i suoi appunti, aveva concordato che Flynn era una “brava persona” senza però accedere alla richiesta di porre fine all’inchiesta. Trump, sempre secondo Comey, aveva detto che da presidente aveva bisogno  della sua “loyalty” e che se l’aspettava.  I cronisti italiani hanno erroneamente tradotto il sostantivo con “lealtà” mentre invece si tratta di “fedeltà” come si evince anche dalla risposta di Comey, che gli poteva offrire la sua “onestà”. Trump stesso ha confermato il significato del termine, mentre cercava di smentire in una conferenza stampa che non aveva chiesto “allegiance” (fedeltà) a Comey perché lo conosceva appena.
In effetti, se si crede a Comey e ai suoi appunti, Trump avrebbe cercato di intimidire l’allora direttore dell’Fbi. In un certo senso ci è riuscito. Infatti, dopo il loro primo incontro alla Trump Tower prima dell’inaugurazione, Comey aveva già iniziato a scrivere gli appunti sull’incontro temendo che Trump avrebbe potuto in futuro mentire. Nei suoi rari incontri con gli ex presidenti George W. Bush e Barack Obama invece Comey non aveva ritenuto necessaria questa precauzione.  In mancanza di testimoni si tratta dunque della parola di uno contro quella dell’altro.
Si sa benissimo che il rapporto di Trump con la verità  può essere definito solo come “precario”.  Le situazioni in cui il 45esimo presidente dice una cosa e poi cambia immediatamente, dicendo il contrario o addirittura falsità, sono numerosissime. Il Washington Post Fact Checker ha calcolato che nei quattro mesi da quando è in carica Trump ha fatto 623 dichiarazioni false o fuorvianti. L’agenzia di stampa Associated Press  conferma l’inaffidabilità di Trump per quanto riguarda il terrorismo citando i tweet falsi del presidente statunitense sul recente attacco terroristico di Londra. Gli americani lo hanno notato, come ci conferma un recente sondaggio dell’agenzia Quinnipiac, secondo cui il 59 per cento degli americani considera Trump “disonesto”.
Da parte sua Comey non è propriamente un boy scout ma rispetto a Trump appare più credibile. Reagendo al tweet del presidente, in cui minaccia la possibile presenza di registrazioni dei loro incontri, l’ex direttore dell’Fbi ha detto che “prega Iddio” che queste registrazioni esistano. Trump, però, ha risposto a un giornalista che le registrazioni possono esistere, ma che non lo vuole confermare adesso: lo farà in futuro. Difficile non ricordare che nel suo passato  di imprenditore Trump aveva fatto la stessa minaccia di possedere registrazioni, ma, una volta davanti al giudice in una causa, ha dovuto ammettere che non le possedeva. Perché aveva dichiarato il contrario? Per intimidire il suo avversario, ammise Trump. Si ripete la storia? Probabilmente.

Trump crede alla verità come un edificio. Lo si può costruire asserendo cose inventate. Più una frase si ripete, più diventa vera. Questo sistema  lo ha usato nei suoi affari e anche nella campagna elettorale perché è riuscito a convincere un numero sufficiente di elettori ad aprirgli le porte della Casa Bianca. Adesso da presidente però le sue parole si devono scontrare con i fatti e specialmente con la legge. Ha cominciato a capirlo quando non ha mantenuto la promessa di twittare minuto per minuto durante la testimonianza di Comey al Senato. A parlare per lui ha mandato il suo avvocato personale Marc Kasowitz. Il legale ha dichiarato che Comey ha scagionato Trump affermando che il presidente non è personalmente indagato. Vero, ma solo per qualche giorno. Secondo il Washington Post, l’inchiesta di Robert Mueller, procuratore speciale sul Russiagate, include anche un’indagine sulla persona di Trump per “ostruzione della giustizia”. Il tam tam dell’impeachment diventa sempre più sonoro.
*Domenico Maceri è docente di lingue all’Allan Hancock College, Santa Maria, California  (dmaceri@gmail.com)  

Commenta per primo

Lascia un commento