OSSERVATORIO AMERICANO di D. Maceri/ I primi 100 giorni di Trump: solo ombre

di DOMENICO MACERI*

«Si tratta di un criterio improprio: “100 giorni”, ma devo ammettere che nessuno ha compiuto ciò che abbiamo fatto noi in cento giorni». Così Donald Trump ha risposto a una domanda sul suo primo trimestre  di governo. Il 45° presidente ha  torto nell’affermare  di aver fatto tanto nei primi cento giorni, ma ha ragione di dubitare che un così breve periodo di tempo possa misurare la politica di un presidente.

I primi giorni possono essere un disastro per un presidente, come lo furono per William Henry Harrison, che morì un mese dopo il suo insediamento, nel 1841. Franklin Roosevelt invece nei suoi primi cento giorni firmò una legge sulla riforma bancaria che riuscì ad arginare efficacemente la profonda crisi economica in cui versava il Paese. Molte delle leggi firmate da Roosevelt però presero origine nel Congresso, che si comportò in modo collaborativo con l’allora inquilino della Casa Bianca. I grandi successi di Roosevelt,  come la fondazione del Social Security, vennero dopo e poi culminarono nella guida della nazione alla conclusione della Seconda Guerra Mondiale.
L’agenda di John F. Kennedy era molto ambiziosa e lui stesso disse che non si sarebbe compiuta in cento giorni. Aveva ragione. L’inizio del suo governo fu poco promettente ed incluse la sua autorizzazione all’azione militare della Baia dei Porci, che fallì nel perseguire l’obiettivo di rovesciare il governo di Fidel Castro.
Ronald Reagan  riuscì a sopravvivere a un attentato nei primi cento giorni e la caduta dell’Unione Sovietica avvenne molto più in là. Bill Clinton ebbe un inizio poco promettente, ma alla fine del suo mandato aveva un’approvazione del 66 per cento per avere  rinnovato l’economia. Nel caso di George W. Bush poco fu compiuto nei primi cento giorni ma poi le leggi approvate sui tagli fiscali e le due guerre in Iraq e Afghanistan sigillarono la sua presidenza con un’approvazione bassissima, del 22 percento.

Nonostante i suoi dubbi sui primi cento giorni, Trump ha pubblicato un articolo nelle pagine del Washington Post in cui si autocongratula per i successi che hanno a che fare con i provvedimenti sull’immigrazione, sull’eliminazione delle regole per sbloccare i posti di lavoro, e la conferma di Neil Gorsuch alla Corte Suprema. Gli si potrebbe riconoscere quest’ultimo successo, ma il fatto sta che sono stati i repubblicani al Senato che hanno fatto tutto il lavoro per il quale però sono stati costretti ad eliminare il filibuster che richiedeva la super maggioranza di sessanta voti su cento per procedere ai voti.

Come ha fatto spesso durante la campagna elettorale, il 45° presidente ha attaccato i media perché non riconosceranno i suoi successi. Forse. Ma in fondo nemmeno lui ci crede perché se al Senato i repubblicani hanno contribuito alla sua agenda alla Camera, le fratture del suo partito hanno bloccato la sua agenda. A cominciare dalla abrogazione della tanto odiata Obamacare, che Trump aveva attaccato nella campagna elettorale. Anche con altre modifiche sul disegno di legge di Paul Ryan sembra che – nonostante i controlli di Casa Bianca, Camera e Senato – i repubblicani con Trump non riescano a dettare leggere.

Il fatto che nemmeno Trump creda ai suoi successi nei primi cento giorni ce lo conferma la sua ripresa della campagna elettorale con il suo rally in Pennsylvania. Nel discorso ai suoi fedelissimi,  ha ripreso i temi già notissimi attaccando la stampa, ripetendo ciò che farà, attaccando persino Washington, sorvolando sul fatto che lui abita alla Casa Bianca. Sembra che Trump cerchi di separarsi dal governo del quale lui è il presidente.

Trump ha bisogno dell’adulazione della gente e quindi il rally serviva a ricaricargli le batterie. Il conduttore radiofonico Howard Stern, suo buon amico, che però ha votato per Hillary Clinton, ha dichiarato recentemente che essere presidente sarà un disastro per il tycoon. In una conversazione anni addietro Stern gli aveva predetto che come presidente non sarebbe stato amato e che “si troverà a vivere in un incubo”. Secondo Stern, il settantenne Trump non aveva bisogno di nulla, considerando la sua situazione economica e familiare. “Lui ha bisogno di essere amato” e  da presidente “tutti saranno molto critici”. Stern aveva ragione.

Trump è molto sensibile  alle cifre di gradimento e sa benissimo che dopo cento giorni di presidenza i sondaggi lo danno ai minimi di popolarità secondo l’agenzia Gallup (39 per cento). Barack Obama, il suo predecessore,  allo stesso periodo della sua presidenza era al 65 per cento.
L’insoddisfazione di Trump come presidente ci è stata dimostrata anche da lui stesso. In un’intervista all’agenzia Reuters  ha confessato che la presidenza richiede “più lavoro delle sue attività precedenti” e che “pensava sarebbe stato tutto più facile”. “Adoravo la mia vita prima”, ha concluso Trump. La maggioranza degli americani, che ha votato per Hillary Clinton, sarebbe ben contenta se ritornasse a quella vita privata.
*Domenico Maceri è docente di lingue all’Allan Hancock College, Santa Maria, California  (dmaceri@gmail.com)

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