OSSERVATORIO AMERICANO/ Sessions, Trump e l’escalation della guerra ai media

di DOMENICO MACERI* – “Il procuratore generale ha detto chiaramente che concentriamo i nostri sforzi sulle gole profonde e non sui giornalisti. Noi ci preoccupiamo di inseguire quelli che commettono reati”. Con queste parole, Rod Rosenstein, il vice procuratore generale degli Stati Uniti, ha cercato di spegnere il fuoco creato dal suo capo, Jeff Sessions, che aveva suggerito il contrario. Sessions aveva detto recentemente che il ministero di Giustizia rispetta la stampa ma il rispetto “ha dei limiti” e i giornalisti non “possono mettere a rischio la sicurezza nazionale e la vita degli agenti”.
Pressato per chiarimenti, Sessions si è semplicemente allontanato senza ulteriori spiegazioni.

Difficile speculare ma ovviamente il contesto della situazione del procuratore generale con il suo capo, il presidente Donald Trump, ci aiuta a capire. Come si sa, il 45esimo presidente ha mandato una serie di tweet in cui ha dimostrato la sua delusione per l’operato di Sessions. In particolare l’attuale inquilino della Casa Bianca ha rimproverato Sessions per essersi ricusato da tutte le inchieste sul Russiagate lasciando la patata bollente nelle mani del vice procuratore generale. Come si ricorda, Rosenstein ha dato l’incarico di procuratore speciale a Robert Mueller per l’inchiesta sull’interferenza russa nell’elezione americana.

Si credeva che Trump volesse licenziare Sessions ed eventualmente nominare un sostituto che avrebbe messo fine al Russiagate, ma la reazione del Senato è stata di netta opposizione. Trump ha capito che un eventuale licenziamento di Sessions non sarebbe ben visto e avrebbe incontrato l’opposizione dei senatori, alcuni dei quali hanno asserito con parole chiarissime che sarebbero poco propensi alla conferma di un nuovo procuratore generale.
Ciononostante, i tweet scoraggianti di Trump avranno certamente deluso Sessions considerando il fatto che l’ex senatore dell’Alabama è stato uno dei primi fedeli sostenitori della campagna elettorale di Donald Trump.

L’attuale procuratore generale non si è dimesso nonostante i tweet umilianti di Trump nei suoi confronti ed ha continuato il suo lavoro. Adesso l’enfasi sulle gole profonde, legata al lavoro dei giornalisti, ci appare come un tentativo di rapprochement con l’attuale residente della Casa Bianca nella lotta contro la stampa.

Si sa per esempio che Trump ha condotto una campagna feroce contro la stampa durante la campagna elettorale ma anche durante i sette mesi di mandato. Si ricorda facilmente che il 45esimo presidente ha persino attaccato i media come “nemici del popolo”, parole che richiamano atteggiamenti di leader autoritari. Si ricordano anche gli attacchi verbali ai media da parte di Trump, attacchi che in alcuni casi hanno incitato i suoi sostenitori e hanno messo in pericolo la vita di alcuni cronisti, costretti a ricorrere alla protezione dei servizi segreti.

I giornalisti americani nel territorio nazionale non corrono i rischi dei loro colleghi in altri Paesi. Più di cento giornalisti hanno infatti perso la vita nel 2016 nel Medio Oriente (30), Asia (28), America Latina (24), Africa (8), e alcuni in Europa. Ciononostante i rapporti fra il governo e la stampa sono stati tesi durante il governo di Trump come ci testimoniano anche le conferenze stampa alla Casa Bianca, divenuti chiari scontri verbali fra giornalisti e i portavoce del presidente.
Quando Trump e Sessions alzano il dito contro i giornalisti perché pubblicano notizie ottenute da “gole profonde” sbagliano bersaglio. Il problema in America non sono i giornalisti per la fuga di notizie. Le fughe di notizie, specialmente dalla Casa Bianca, sono dovute proprio agli individui che vi lavorano. A cominciare dal presidente stesso come abbiamo visto nel mese di maggio. Secondo il Washington Post il 45esimo presidente avrebbe trasmesso a dei diplomatici russi alla Casa Bianca informazioni segrete sull’Isis raccolte da alleati degli americani. In altri casi membri dello staff di Trump hanno rivelato notizie a cronisti per mettere in cattiva luce avversari alla Casa Bianca.

Sessions ha parlato dei pericoli che alcuni giornalisti causano alla sicurezza degli Stati Uniti cercando di distribuire la colpa fra  dipendenti governativi che hanno rilasciato informazioni classificate e i giornalisti. I giornalisti però non vengono denunciati per pubblicare queste informazioni soprattutto perché agiscono professionalmente. Infatti, prima di pubblicare informazioni pericolose i giornalisti controllano con agenzie del governo perché, dopotutto, anche loro sono americani e hanno a cuore la sicurezza nazionale.
Sessions dunque con i suoi annunci di una futura linea dura contro i giornalisti cerca di ricucire i propri rapporti con Trump aiutando il presidente nei suoi tentativi di delegittimare la stampa. La minaccia del procuratore generale di rivedere i provvedimenti che potrebbero condurre alle denunce di giornalisti  che non rivelano le loro fonti suonano però false. Pochi infatti sono i giornalisti che hanno avuto problemi di questa natura. Si ricorda il caso di Judith Miller del New York Times, la quale nel 2005 si è rifiutata di rivelare la fonte di un articolo sulla guerra in Iraq. Il caso fu poi risolto senza carcere per la giornalista.

Attaccare un’intera categoria professionale è un atteggiamento politico  tipico di Trump. Sessions, da procuratore generale, dovrebbe astenersi da queste azioni. Ma la sua lunga carriera politica, legata a quella di Trump negli ultimi due anni, avrà influenzato il suo annuncio, che ovviamente non tranquillizza i giornalisti.  Rosenstein, però, ha preso le distanze dal suo capo, dicendo che la pubblicazione di informazioni non è reato. Il reato, quando c’è, lo hanno commesso le “gole profonde” che hanno rilasciato informazioni che dovrebbero rimanere segrete.

*Domenico Maceri è docente di lingue all’Allan Hancock College, Santa Maria, California  (dmaceri@gmail.com)



	

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