ORA DI PUNTA/ PARIGI, O CARA…

di ENNIO SIMEONE

Gli italiani sono avvertiti: nelle due settimane che si separano dal ballottaggio del 7 maggio – quando la Francia tornerà alle urne per decidere se il successore di Hollande all’Eliseo sarà  Emmanuel Macron o Marine Le Pen – commentatori e opinionisti che affollano i nostri talk show televisivi,  e (sia pur con maggior parsimonia) frequentano le pagine dei giornali, ci tortureranno con i loro arditi tentativi di leggere in italiano ciò che Oltralpe verrà detto e scritto in francese. Un po’ la stessa cosa che accadde cinque mesi fa con le elezioni americane, quando Trump si trovò assimilato (con licenza parlando) a Salvini.

Del resto già domenica sera, mentre scorrevano le immagini dello spoglio dei voti nei seggi di Parigi, erano in molti a sentenziare che le modeste o misere percentuali di Fillon (Républicains) e di Hamon (Socialisti) significavano “la fine dei partiti in Europa” e, naturalmente, anche in Italia. Contemporaneamente accadeva che gli esponenti del Pd si identificavano in Macron, definendolo quasi una fotocopia (ridotta) di Renzi, e i portavoce della destra si specchiavano in Marine Le Pen, che ai loro occhi prendeva le sembianze (maggiorate) di Giorgia Meloni (anche per conto o in sostituzione di Salvini-Trump).

Per carità, si sa che noi italiani, quando abbiamo bisogno di lamentarci, usiamo dire che “in Francia o in Germania cose del genere non succederebbero mai”; quindi all’opposto, quando ci conviene, diciamo che dobbiamo “prendere esempio da quello che accade in Francia o in Germania”. Dunque siamo nella regola se un piddino fa il tifo per Macron e un leghista fa il tifo per Le Pen.

Ma forse è il caso di richiamare tutti a restare con i piedi per terra, e ad evitare paragoni azzardati sol per trarne qualche ipotetico vantaggio propagandistico. Basterà solo ricordare che in Francia (Repubblica presidenziale) e negli Stati Uniti (stato federale)  la Costituzione  assegna al Presidente poteri diversi e ben maggiori di quelli che la nostra Costituzione attribuisce al Presidente in Italia (repubblica parlamentare) e che  sia in Francia sia negli Usa la scelta avviene con elezione diretta (con un finto “secondo grado” negli Usa attraverso i “grandi elettori” ). Quindi in entrambi quei paesi vi è una forte personalizzazione individuale delle candidature, con tutti i pregi (pochi) e con tutti i rischi (parecchi) che i pieni poteri nelle mani di una persona sola comportano.

In realtà quel tifo per l’uno o per l’altro candidato francese – più che legittimo se legato ai programmi, alle scelte politiche e, soprattutto, alla visione dell’Europa di ciascuno dei due – nasconde una voglia di “uomo solo al comando” che non si è spenta con il fallimento del referendum del 4 dicembre sulla riforma costituzionale. E’ dunque un nuovo tentativo di denigrare e svilire il ruolo dei partiti e, con essi,  ogni forma di partecipazione alle scelte dei programmi e alla selezione di coloro che li devono attuare.

Perciò bisogna evitare di cadere in questa trappola e impegnarsi tutti a far in modo che i partiti tornino a svolgere la funzione di canali attraverso i cittadini di tutte le classi sociali esprimano le loro istanze, scelgano i loro rappresentanti nelle istituzioni ed esercitino il controllo sul loro operato.

Un ritorno al passato? Se serve, sì. Anche se non è facile.

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