ORA DI PUNTA/ Che cosa è mancato ai protagonisti della telenovela post-elettorale? Il buonsenso

di STEFANO CLERICI – Comunque fosse andata, sarebbe sempre finita malamente. Sia che il braccio di ferro sul caso Savona l’avesse vinto – come è accaduto – il presidente Mattarella, sia che l’avessero vinto, invece, i “dioscuri” Salvini e Di Maio questa sarebbe stata – come è e resterà – una pagina nera, nerissima, nella storia istituzionale repubblicana. Forse la più drammatica dal dopoguerra.

Se Mattarella si fosse arreso al diktat dei due vincitori delle ultime elezioni, ne sarebbe certo uscita scalfita la stessa figura di garanzia del presidente della Repubblica, già ferita da quell’incarico per Palazzo Chigi a un portavoce, il professore Giuseppe Conte,  dei capipolo di Lega e Cinque Stelle. Ma adesso che Mattarella ha voluto imporre le sue prerogative costituzionali, rifiutandosi di firmare la nomina di un, pur illustre, euroscettico come il professor Paolo Savona a ministro dell’Economia, sarà a breve richiamato alle urne un elettorato ancor più imbufalito di quanto non lo fosse il 4 marzo, con conseguenti mesi di feroce campagna elettorale, trasformata in una guerra tra sovranisti ed europeisti, tra guelfi e ghibellini, tra italiani e stranieri. Il tutto magari accompagnato da altrettanto devastante tempesta sui mercati finanziari.

La verità è che, dal 5 marzo in poi, il grande assente di questa nostra storia sembra essere stato il buonsenso. Il senso della realtà e il senso della buona politica. Prima hanno cominciato Cinque Stelle e centrodestra proclamandosi (e proclamati dallo stesso Pd) vincitori delle elezioni, come se si fosse votato con un sistema maggioritario, mentre, avendo votato con un sistema prevalentemente proporzionale, né l’uno né l’altro avevano la maggioranza necessaria a governare. Un equivoco che ha “truccato” il tavolo da gioco e ha permesso tanto a Salvini quanto a Di Maio di “pretendere” l’incarico dal capo dello Stato. Alla faccia del buonsenso e della Costituzione.

Passata la sbornia e resisi conto che per fare un governo bisognava trovare un accordo, è partita la stagione dei veti incrociati. “Mai con Berlusconi”, gridava Di Maio. “Mai col Pd”, tuonava Salvini. “Mai con i Cinque Stelle”, si sbracciavano scompostamente Renzi e i suoi scudieri. A un certo punto, il leader pentastellato s’è inventato la politica dei due forni, facendoci ripiombare in piena Prima Repubblica. E s’è inventato (anzi, reinventato sulle orme dell’odiato cavaliere) il contratto. Un pezzo di carta sul quale elencare tutti i proclami propinati durante da campagna elettorale da far controfirmare a chiunque fosse disposto a mandarlo a Palazzo Chigi, pronto ad aggiungere su quel pezzo di carta anche i proclami propinati dall’altro contraente. Un libro dei sogni che tutti sapevano che non si sarebbero mai potuti realizzare, di certo non nei tempi e nei modi in cui erano scritti. Alla faccia del buonsenso e della realtà.

E sono partiti i tentativi del povero Mattarella. Prima con la presidente del Senato, Elisabetta Alberti Casellati, per esplorare le possibilità di fare un governo tra centrodestra e Cinque Stelle. “Mai con Berlusconi”, rituonava Di Maio. “I Cinque Stelle? Vadano a pulire i cessi”, replicava elegantemente il cavaliere.

Flop. E mano passata al presidente della Camera Roberto Fico, per vedere se si poteva fare un governo stavolta tra Cinque Stelle e Pd. Un’occasione più unica che rara per impedire la sciagurata saldatura tra un partito che – piaccia o no – ha in pancia almeno cinque milioni di voti di sinistra e la becera destra di Matteo Salvini. Ma, quando sembrava aprirsi un piccolo spiraglio, quell’Attila fiorentino che risponde al nome di Matteo Renzi è apparso in tv e ha fatto terra bruciata. Dunque, flop anche Fico. Alla faccia del buonsenso e dell’acume politico.

A quel punto, il povero Mattarella, spazientito, ha tirato fuori il governo di tregua, il suo governo. Ed ecco che, di fronte alla paura delle urne, è arrivato il famoso passo di lato di Berlusconi, con conseguente via libera a una trattativa Salvini-Di Maio. Ma i due, invece d’incontrarsi, discutere e tornare poi dal presidente della Repubblica con il nome del presidente incaricato, hanno preferito passare giorni e notti a limare, tagliare, incollare quel benedetto contratto, nell’insensata convinzione che il futuro primo ministro non dovesse essere altro che un “esecutore” dei loro ordini. Alla faccia del buonsenso e della Costituzione. E della coerenza – aggiungiamo –, visto che avevano giurato che non sarebbe mai stato un tecnico.

Ma tant’è. Il programma è arrivato e il nome pure. Il povero Mattarella ha fatto buon viso a cattivo gioco, ma si è raccomandato che almeno per la lista dei ministri ci fosse più attenzione, facendo ben intendere assai prima dell’incontro finale che un euroscettico come Savona non sarebbe stato gradito. Niente da fare. Salvini s’è impuntato, rifiutando a priori (per calcolo?) la sostituzione di quel nome persino con un altro leghista di peso. E Di Maio, come si dice a Roma, ha imboccato con tutte le scarpe. Alla faccia del buonsenso e dell’acume politico. Così, Mattarella ha deciso di scrivere la parola fine a questa assurda telenovela. Alla faccia del buonsenso e della povera Italia, condannata a mesi di campagna elettorale avvelenata. Per di più, con il rischio – se non la certezza – di ritrovarci tutti fra tre mesi, a urne di nuovo chiuse, nella stessa identica situazione del 5 marzo, magari anche peggiorata. Alla faccia del buonsenso.

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