MA “CONGRESSO” NON E’ UNA PAROLACCIA

di ENNIO SIMEONE

La disputa sulla data di svolgimento del congresso del Pd non è – come declamano alcuni commentatori che si affacciano quotidianamente alle varie finestre televisive – una questione per “addetti ai lavori” che, pertanto, “non “interessa agli italiani”. Al contrario, è una faccenda che avrà  ripercussioni, anche abbastanza immediate e non marginali, sulle decisioni che verranno adottate nella gestione dell’economia, della politica (interna ed estera), e sulle corti in generale del nostro paese. E, quindi, sugli “interessi degli italiani”.

Cerchiamo di capire il perché, uscendo, per quanto possibile, dall’odioso e odiato  “politichese”.

Intanto una premessa, scontata ma spesso “dimenticata”: in questo momento il Partito democratico ha di gran lunga il più corposo numero di parlamentari, con la maggioranza assoluta alla Camera e qualche decina di senatori in meno della maggioranza a Palazzo Madama e, nonostante le ultime sconfitte, viene accreditato dai sondaggi del 30% dei consensi elettorali; ha il controllo assoluto del governo in carica, ha un altissimo numero di sindaci e presidenti di regione e ha intestati  alla sua appartenenza i vertici di importanti enti pubblici e organismi istituzionali. E potremmo aggiungere che, tra le formazioni politiche maggiori, è l’unica ad avere una vera struttura di partito tradizionale, articolata sul territorio nazionale e governata da regole statutarie consolidate.

Le speranze della rottamazione

 Tre anni fa (dicembre 2013), dopo le dimissioni di Pierluigi Bersani, è assurto al suo vertice un nuovo segretario, Matteo Renzi, scelto con un regolamento delle “primarie” modificato per estendere il diritto di voto, prima riservato ai soli iscritti, anche a coloro che se ne dichiaravano simpatizzanti. Due mesi dopo, Renzi dette il via al programma di “rottamazione”: un termine che inaugurò rumorosamente un linguaggio bellicoso e sprezzante di rottura con il passato e con coloro che quel passato avevano faticosamente costruito, un programma che entusiasmò molti italiani e creò aspettative e speranze che annebbiarono ed anzi  fecero apparire come una svolta salutare per il futuro del nostro paese la brutale liquidazione di un governo a guida Pd, quello presieduto da Enrico Letta, già vice segretario di Bersani, per mano di un segretario dello stesso Pd appena insediato. Quelle speranze furono alimentate da una straordinaria velocizzazione delle decisioni, da un dinamismo eccezionale del protagonista e da una tale raffica di annunci e promesse di riforme, concretamente incoraggiate dalla famosa elargizione dei bonus di 80 euro, che alle elezioni europee il Pd superò il 40 per cento dei consensi. (Tra parentesi ricordiamo che molte di quelle riforme furono approvate dal parlamento velocemente grazie alla enorme forza parlamentare conquistata dal Pd di Bersani con il favore della legge elettorale maggioritaria, il cosiddetto “porcellum”, successivamente dichiarato incostituzionale dalla Consulta per l’eccessivo “premio” di deputati in più  concesso, senza alcun “tetto” limitativo, al partito che aveva ottenuto con il maggior numero di voti in assoluto).

Lo diceva anche Andreotti

In questi tre anni una serie di leggi e alcune riforme, frettolosamente approvate, si sono rivelate sbagliate, o mal scritte o inefficaci. La credibilità e la popolarità di Renzi sono andate scemando, fino ad incidere negativamente persino sull’esito delle elezioni amministrative  (esemplari le sconfitte di Torino e di Roma ad opera dei Cinquestelle) e addirittura sprofondando nella débacle del referendum sulla pasticciata riforma costituzionale, che lo ha spinto il 5 dicembre alle dimissioni da capo del governo. Dimissioni cui non era obbligato. Semmai avrebbe dovuto darle da segretario del partito. Ma, come si sta vedendo in questi giorni, non hanno nulla di definitivo. Anzi, nelle sue intenzioni sono solo il rinculo per prendere la rincorsa verso un nuovo assalto a Palazzo Chigi, scalzandone Paolo Gentiloni, che lui ritiene debba avere il solo compito di tenergli momentaneamente in caldo la sedia.

Nelle sue intenzioni è una riappropriazione che intende attuare ripartendo dalle urne, cioè da una legittimazione popolare. Ma, ecco il punto, il tempo è decisivo. In questi due mesi di “ritiro” post referendario Renzi si è accorto che erano parole sante quelle del pluri capo di governo  dell’era democristiana Giulio Andreotti, il quale a chi diceva che “il potere logora” replicava che “logora chi non ce l’ha”. Nei sondaggi  sulla popolarità dei leader italiani del momento è già stato scavalcato di 6 punti persino dal “tranquillo” Gentiloni!

Lui non può attendere la scadenza naturale della legislatura – cioè febbraio 2018 – per nuove elezioni. Le vorrebbe subito, a primavera; al massimo a settembre.

Un programma indispensabile

E qui entra in campo il “problemino” della data del congresso. Dicono gli esponenti più esperti, non solo del Pd: a nuove elezioni, soprattutto dopo le ultime sconfitte, un partito può andare solo dopo aver elaborato una solida piattaforma programmatica elaborata attraverso un’ampia consultazione popolare che coinvolga innanzitutto il “popolo degli iscritti”, e ciò può avvenire solo attraverso un congresso che, a piramide, parta dalle sezioni territoriali (che ora si chiamano “circoli”), per arrivare al livello provinciale e successivamente a quello regionale e infine a quello nazionale: un processo che porta, contemporaneamente, anche alla nomina degli organismi dirigenti ai vari livelli su cui la macchina elettorale. E’ un lavoro fondamentale per delineare una proposta di “futuro” (quel “futuro” tanto caro anche a Renzi) da presentare, doverosamente, al popolo italiano anche in contrapposizione a quello emergente delle cosiddette forze “populiste”. Quindi è un lavoro che richiede tempi lunghi, come è acceduto per l’ultimo congresso, quello che, tre anni fa, portò alla elezione proprio di Renzi come segretario: iniziò a giugno e si concluse a dicembre.

Renzi invece vorrebbe liquidare la cosa a stretto giro di boa con alcune settimane di riunioni frettolose e poi passaggio alle primarie per la scelta del segretario. Che – attenzione! – in ossequio alla vecchia legge elettorale sarebbe anche il candidato premier; ma, essendo caduti  sotto i colpi della Corte Costituzionale sia il “porcellum” sia l’”italicum”, tale indicazione non ha più senso. Quindi c’è da cambiare le regole anche per questo adempimento.

E’ ammissibile che tutto ciò si possa fare mentre, contemporaneamente, in primavera, si dovranno svolgere importanti elezioni amministrative che impegnano tutti i partiti; e vi sono altrettanto importanti appuntamenti internazionali, uno dei quali proprio  in Italia?

Non è, come si vede, un contrasto di poco conto e quindi non sono ininfluenti su tutta la politica italiana e sull’operatività del governo del paese le date e i modi di svolgimento del congresso Pd. Per di più il tempo c’è, perché un governo in carica c’è. E, se è vero che è la fotocopia di quello presieduto da Renzi, non dovrebbe destare preoccupazioni, soprattutto nel suo “padre nobile”.  A meno che lui non consideri ora la parola “congresso” una parolaccia.

 

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