La guerra al rallentatore contro il califfato

di GIOVANNI PEREZ – Il lessico dei politici e degli organi di stampa e delle tv italiane in quest’ultimo periodo è stato soggetto a modifiche in tempi brevi:  è avvenuto di recente, ma pochi sembrano essersene accorti. All’inizio, un paio di anni fa, quei poveracci che sbarcavano in Sicilia dopo essere stati abbandonati nel Mar Mediterraneo in balia delle onde, erano stati definiti “rifugiati”. Poi lentamente questo termine è stato abbandonato a favore di  “richiedenti asilo” e di “migranti”. Una modificazione lessicale che in effetti ha rispecchiato in maniera sostanziale  il mutamento della loro provenienza: la prima ondata era infatti costituita da persone in fuga dalla guerra infinita che sconvolge l’Iraq. Il loro percorso prevedeva, grosso modo, due itinerari principali per raggiungere l’Europa: il transito attraverso l’Egitto o il passaggio attraverso la Turchia e la Grecia. A loro andava correttamente applicato il termine “rifugiati”.
Poi i mercanti di schiavi, intuito “l’affare”, hanno reclutato sempre più disperati, ma questa volta nel Centro Africa.  Illudendoli che avrebbero potuto trovare una vita migliore in Europa, hanno cominciato a trasportarli con dei camion attraverso il deserto sino alla costa tripolitana. Ammassati vicino a Tripoli e spogliati dell’ultimo dollaro che avevano in tasca, li hanno  fatti salire su sgangherati gommoni abbandonandoli poi in mezzo al Mediterraneo.
A questo punto anche la stampa e le tv italiane hanno mutato lessico: non più ”rifugiati”, perché fuggitivi dalla guerra contro l’Isis, ma dalla fame.
A parte il lessico, restano misteriose alcune cose. Il primo interrogativo, che avevo già posto in passato, è molto semplice: alla Libia inviamo molti miliardi per forniture militari e a vario titolo, ma sino ad oggi i libici non hanno mosso un dito per contrastare il traffico umano dal Centro Africa. Perché? Forse anche in Italia qualcuno ci guadagna? Ma che ci vanno a fare in Libia i rappresentanti del nostro governo? Assodato che non si vuole neutralizzare i trafficanti a Tripoli, basterebbe, afferma qualcuno, che un paio di nostri aerei distruggessero le colonne di camion quando, vuoti, attraversano il deserto per andare a prelevare quei poveracci e impiegare le risorse per aiutarli nei loro Paesi.
E veniamo all’Iraq. Sono ormai un paio di anni che, a scadenza regolare, ci raccontano che il governo dell’Iraq è impegnato a combattere l’Isis. Russi, americani, curdi e persino istruttori italiani – ci raccontano sempre i mass-media –  stanno combattendo contro l’Isis. A quanto sembra senza grandi risultati. Gli uomini del Califfato sembrano quasi invincibili. Un apparato di forze “alleate” che a Mosul sta avanzando a passo di lumaca, tanto che si prevede che ci vorranno ancora molti mesi per conquistare la città.
A questo punto a non pochi osservatori vengono dei dubbi: ma è proprio la verità quella che ci viene raccontata? O comperare il petrolio dall’Isis è conveniente e quindi non è il caso di aver fretta nel distruggere il Califfato?

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